Wong Kar-wai: east and eros


INTRODUZIONE
24 marzo 2009, 1:03 PM
Filed under: 0. Presentazione

Da bambino amavo il cinema. La grande fascinazione era che avrei sempre potuto smarrirmi in quel mondo ricreato: piangere, ridere, arrabbiarsi, sentirsi privati di qualcosa […]. Quello che il cinema mi ha dato, mi auguro ardentemente di trasmetterlo agli altri.1

Wong Kar-wai è l’autore di Hong Kong per eccellenza, il più amato, il più conosciuto a livello planetario; è il grande uomo di cinema d’inizio millennio che pur possedendo la perizia tecnica dell’artigiano e la profondità del poeta, non rinuncia a fare della lentezza e dell’indecisione il suo modus operandi. Più in generale, è il passeggero insieme a 6.898.686 anime di una nave immobile al centro dell’oriente che forse naufraga lentamente senza saperlo.

Ma di cosa realmente parliamo quando ci riferiamo a lui, alla sua carriera, al suo stile autoriale? Le possibili risposte a questa domanda sono come si vedrà molteplici. In questi anni la critica – occidentale soprattutto – si è sbizzarrita nel tentativo di coniare valide definizione per poter meglio “incasellare” e circoscrivere questo fenomeno del panorama cinematografico. Si va quindi da “l’Antonioni dell’Oriente” a “il più europeo dei registi della colonia” passando per “l’alchimista delle immagini” e “il sognatore insoddisfatto”.

Facendoci largo fra tutti questi appellativi, ora poetici, ora impropri, ora decisamente erronei, scopriamo che una prima e possibile risposta può venire – com’è naturale che sia – dai suoi stessi film, a cominciare dall’esordio negli anni ’80 con As Tears Go By per finire con i suoi ultimi progetti, quelli che hanno segnato una sorta di climax artistico nella sua carriera.

La prima immagine di Wong Kar-wai che traspare, opera dopo opera, è innanzitutto quella di un cineasta che narra sempre e solo storie d’amore. Wong, artista che ha condotto il suo apprendistato proprio nell’ambito del cinema di genere, partendo dalla forma già collaudata del melodramma, evoca intimi desideri, rese, rimpianti e disillusioni. Il suo universo creativo indaga, con un’intensità rara fra gli autori contemporanei, la deflagrazione silenziosa della passione, la sua impossibile attuazione, il suo ricordo che sopravvive negli anni con strascichi dolorosi.

Al tempo stesso il regista, pur con tutto il suo conclamato formalismo romantico, non rinuncia a raccontare l’amore – il più consueto fra i sentimenti portati sullo schermo – anche attraverso una visuale politica, strettamente connessa al divenire e al destino della sua città. I crucci esistenziali che Wong mette in scena fanno un tutt’uno con la sua condizione di cittadino di una polis presa in prestito, Hong Kong, che è stata inglese con la prospettiva di tornare cinese in un prossimo futuro, il 2046.

Il senso politico del melodramma per il regista si compie quindi descrivendo il desiderio e la sua impossibilità. Attraverso il simulacro del film di genere, il melò, aperto comunque anche ad altre suggestioni – dal gangster movie, alla fantascienza, alla commedia – Wong Kar-wai inserisce così il suo giudizio politico, la sfiducia e il suo timore nei confronti della Storia.

L’amore imperfetto e impossibile, sempre relegato nella nostalgia e nel rimpianto, è la metafora, nemmeno tanto velata, dell’insicurezza che, a sua volta, prova l’ex colonia incalzata dal fantasma del ritorno alla Cina. La geopolitica di Hong Kong si parafrasa così in queste racconti d’amore e di perdita, in un abbraccio che è sempre e perennemente incompiuto.

1 L. Gliatta, Wong Kar-wai, Dino Audino Editore, Roma, 2004, p. 75.



Chi è?
13 marzo 2009, 9:00 am
Filed under: 1. Biografia

Wong Kar-Wai è il più occidentale dei registi sfornati dalla new wave del cinema orientale a partire dagli anni Ottanta. È un regista sperimentale e un profondo innovatore del linguaggio cinematografico: probabilmente è il regista che sarebbe stato Godard se fosse nato in Cina trent’anni dopo. Le sue pellicole mantengono il taglio classico della cultura orientale soprattutto nelle tematiche delle storie, non esagerano mai coi toni e non sanno nemmeno cosa sia la morbosità: i sentimenti vengono descritti e messi in scena in modo pudico, viene lasciato spazio allo stupore ma mai al compiacimento. Si pensi a uno scrittore come Haruki Murakami, uno degli autori simbolo della letteratura giapponese contemporanea. Le sue storie sono universali ma il modo con cui la sua scrittura affronta i sentimenti rimanda a una cultura lontana, una cultura in cui temi quali il sesso, la droga e perfino la morte sono affrontati in modo vitale, in naturale contrapposizione alla pesantezza tipica della cultura occidentale.
Quello che rende Wong Kar-Wai un regista distante dalla terra da cui proviene è invece la forma che dà alle sue storie: per quanto profondamente hongkonghese in quanto a materiale di partenza, il suo cinema è esteticamente e concettualmente più vicino al gusto statunitense rispetto a quello della maggior parte dei suoi connazionali. Il cinema di Wong Kar-Wai è fresco e colorato, molto più spontaneo e rivitalizzante nel mettere a fuoco problemi che ormai sono diventati propri del mondo e non di una cultura in particolare. Si immagini di leggere le righe dolcemente malinconiche di un romanzo di Murakami ascoltando il lounge scoppiettante e festoso dei Pizzicato Five: ecco il cinema di cui si sta parlando.
Wong Kar-Wai nasce a Shangai, il 17 luglio 1958. All’età di 5 anni si trasferisce con sua madre a Hong Kong a causa della Rivoluzione Culturale; il resto della famiglia lo raggiunge solo dopo alcuni anni. Spaesato in una città in cui fatica a comunicare (la lingua parlata a Hong Kong era diversa da quella parlata a Shangai), trascorre intere giornate nei cinema con sua madre. Dopo aver conseguito il diploma, inizia un corso di design grafico che abbandona dopo due anni, iscrivendosi a un corso per sceneggiatori alla Hong Kong Television Broadcasts Ltd., un’importante casa di produzione di Hong Kong. Entra così a contatto col mondo del cinema passando dalla porta di servizio: tra il 1982 e il 1987 scrive alcune sceneggiature che spaziano dalla commedia romantica al drammatico.
Il suo debutto come regista avvenne nel 1988 con <As tears go by, un gangster movie che gli valse nove nomination agli Hong Kong Film Award, un’opera che rimanda direttamente addirittura a Mean Streets di Scorsese. As tears go by possiede già tutti gli elementi della poetica che il regista svilupperà con la produzione successiva: montaggio frenetico che riprende l’estetica del videoclip unito alla capacità di sfiorare punte di lirismo struggente e quasi spiazzante.
Il film successivo, Days of being wild, è del 1991: un melodramma d’azione sentimentale (e si potrebbero aggiungere anche altri generi) ambientato negli anni Sessanta, in cui il giovane protagonista, un latin lover distratto, è alla ricerca della madre naturale. Una pellicola che riprende la cifra stilistica propria della Nouvelle vague grazie a una libertà formale che si disinteressa della logica e della consequenzialità ma che mira dritta alle emozioni. A partire da questo film inizia la collaborazione col direttore della fotografia australiano Cristopher Doyle: le luci e i colori iniziano a diventare dei personaggi presenti sulla scena, non meno importanti degli attori in carne e ossa. La fotografia dei film di Wong Kar-Wai è spesso carica, iperrealista e tagliente; crea naturalmente delle situazioni caotiche che contribuiscono in maniera decisiva al lavoro che il regista compie sullo sviluppo e sulla mortificazione finale dei sentimenti dei suoi personaggi. Oltre al direttore della fotografia, anche gli altri componenti dell’equipe del regista iniziano a diventare una vera e propria squadra. Una squadra che condivide la sua singolare metodologia di lavoro: Wong Kar-Wai inizia a rinunciare al processo classico di scrittura cinematografica preferendogli una sorta di work-in-progress che, partendo da alcuni elementi di base (alcuni dialoghi, caratteri di personaggi, situazioni, atmosfere, frammenti di musica), lascia che il materiale prenda forma da sé, man mano che le riprese suggeriscono al regista la direzione da intraprendere. Il risultato è sempre qualcosa di estremamente personale, che anche quando parte da generi ben codificati (il noir di As tears go by o l’action-melò di Days of being wild) finisce per piegare questi ultimi alle esigenze espressive del regista e alla sua poetica. Sempre in quegli anni Wong Kar-Wai fonda insieme a Jeff Lau la Jet Tone Films e inizia così anche la sua carriera di produttore.
Nel 1994 finisce di girare Ashes of Time, un wuxiapan (storie di cavalieri erranti) condito con una bizzarra storia d’amore, che non ottiene il successo sperato. Durante una lunga pausa nella lavorazione della pellicola porta a termine anche Hong Kong Express, il film che lo fa conoscere a livello internazionale. Hong Kong Express prevedeva inizialmente, oltre ai due episodi sviluppati, la presenza di un terzo episodio che, accantonato, venne utilizzato come spunto di partenza per il successivo Angeli perduti.
In Hong Kong Express la naturale tendenza del regista alla melanconia viene inserita nel frastuono della frenetica vita quotidiana della metropoli asiatica. Una metropoli che, per quanto enorme, finisce per risultare claustrofobica, angusta e opprimente. Il regista ne mette in scena l’affollamento percettivo e la casualità con uno stile scoppiettante fatto di ralenti, grandangoli, sequenze in stop-motion e musica rock martellante e onnipresente. Hong Kong Express è probabilmente la summa delle costanti tematiche della sua poetica: l’ossessione/necessità dell’amore, l’alienazione e la solitudine della metropoli, la schiavitù dei ricordi inserita in un contesto urbano vivido e pulsante di dolore sotterraneo. Wong riesce a raccontare le manie, le nevrosi e i difetti dei suoi personaggi con tanto cuore e tanto stile, alternando rapidissime sequenze con la macchina a mano a immagini più statiche e intense. La sequenza di Angeli perduti della masturbazione della protagonista che dopo l’orgasmo si conclude con un pianto fragoroso e solitario tocca vertici insospettabili di poesia e disperazione.
Il 1997 è l’anno di Happy Together, storia di una coppia omosessuale ambientata in Argentina che, nonostante non fosse certo all’altezza delle opere precedenti, valse comunque a Wong il premio di miglior regista al Festival di Cannes. In The Mood For Love è invece del 2000 e racconta le vicende di un giornalista e di una segretaria nella Hong Kong del 1962, vicini di casa che scoprono che i loro rispettivi coniugi sono amanti. In the mood for love è un film che, a differenza dei precedenti, ha una trama molto lineare, i sentimenti dei personaggi aumentano tra un incontro e un altro e la colonna sonora prende ‘silenziosamente’ il sopravvento sulla parola e sulle emozioni. La struttura è basata sulla staticità degli eventi e lo sguardo del regista si sofferma sulla ritualità dei gesti dei protagonisti che si incontrano, si chiedono cosa staranno facendo gli altri due, si parlano come se parlassero a loro, si guardano allontanarsi, e inevitabilmente senza dirselo mai, finiscono per amarsi. Il film si basa soprattutto sulla lentezza dei movimenti, sulle riflessioni dei due personaggi che cercano di accettare il tradimento dei loro coniugi, cercando di capire all’inizio come sia potuto succedere, ma alla fine arrivando a capire che è tutto vano, anche perché la stessa cosa sta accadendo in modo più sottile anche a loro.
Il seguito ideale, 2046, è invece caratterizzato da bruschi passaggi tra la realtà e la fantasia del protagonista. Durante le riprese di 2046, Wong Kar-Wai scrive e dirige La Mano, uno dei tre episodi di Eros (gli altri due sono di Soderbergh e di Antonioni), storia della relazione tra un sarto e una sua cliente.
L’angoscia esistenziale che accomuna tutti i personaggi di questo autentico autore, l’ossessione della memoria che li incatena, la loro incapacità di vivere e di amare, sono espressi in ogni film in modo diverso, con modalità estetiche spesso originali: così, se in Hong Kong Express e in Angeli perduti è il tessuto urbano di una Hong Kong notturna e caotica a fare da teatro alle gesta dei protagonisti, in Days of being wild e in In the mood for love si ritorna agli anni ’60 (a loro volta vero e proprio luogo della memoria per il regista) in cui troviamo una città dalla facciata ben diversa, colorata di luci soffuse e bagnata da una costante pioggia che simboleggia un’angoscia e una sofferenza soffocate, mai esplicitate definitivamente. Persino il deserto che circonda la locanda di Ashes of time diventa un luogo ideale in cui lasciar esplodere tutte le ossessioni e i rimpianti che danno luogo a dei confilitti che sono mentali prima che fisici. In questa capacità di trasfigurare e di caricare di significati che trascendono l’ovvietà sta la grandezza di questo regista che ha ormai assunto una posizione privilegiata tra i cineasti contemporanei, proponendosi prima come un regista di culto per le giovani generazioni, poi consolidando la sua fama presso il pubblico di cinefili dei Festival di tutto il mondo. Il riconoscimento di questa tendenza l’ha ottenuto nel 2006 quando è stato presidente della giuria alla 59ª edizione del Festival di Cannes, primo cinese nella storia del Festival a ricoprire questo incarico: in quell’occasione si è battuto perché la Palma d’oro andasse a Il vento che accarezza l’erba di Ken Loach.



25 marzo 2009, 10:48 am
Filed under: 6. Photo Gallery


DUE PERSONE CHE BALLANO INSIEME LENTAMENTE: LA MUSICA NELL’ULTIMO CINEMA DI WONG KAR-WAI.
24 marzo 2009, 12:55 PM
Filed under: 0. Presentazione

Un uomo ripreso quasi interamente di spalle, una nuca lucida e scura, si aggira tra le rovine di un tempio millenario. A sorvegliare i suoi movimenti dall’alto un’altra nuca, quella completamente rasata di un giovane monaco buddista, probabile emblema dello spirito con cui è stato costruito il tempio stesso. Seguendo i precetti di un antico rituale, l’uomo si ferma, a un certo punto, dinnanzi una delle pareti e bisbiglia nell’incavo di una crepa qualcosa che non ci è dato di sentire; poi con altrettanta naturalezza se ne va, lasciando che le ombre dell’ ennesimo tramonto si allunghino sulle spoglie di quel luogo sacro che l’incedere cadenzato dei secoli ha inevitabilmente eroso.

È il finale di In the Mood for Love, indiscusso capolavoro dell’ “Autore per eccellenza di Hong Kong” Wong Kar-wai. La sequenza, mirabilmente girata e avvolta da una fotografia luminosa ai limiti dell’abbagliante, è completamente priva di dialogo, eppure possiede una rara eloquenza, merito certo della nitida bellezza delle immagini, ma anche del brano musicale che la sostiene dall’inizio alla fine. È infatti proprio quel cupo e grave dondolio, così carico d’infinito cordoglio, a rendere, in ultima istanza, esprimibile il senso e il mistero di quanto il personaggio di Tony Leung confessi nella fenditura del tempio. Oltre ad esser prova di un altissimo lirismo, quest’epilogo è esemplare di come il recente cinema di Wong Kar-wai possa annoverare, tra i suoi tanti motivi di fascino, anche il sapiente uso di splendidi materiali musicali.

I film del regista e, in particolar modo, gli ultimi tre titoli arrivati col nuovo millennio (i lungometraggi In the Mood for Love e 2046 e il mediometraggio La Mano incluso in Eros, film a episodi d’internazionale respiro), quei tre titoli che hanno segnato l’apice della sua carriera, si configurano immancabilmente come opere di scintillante e levigata bellezza visiva. La fama di Wong nel panorama della cinematografia contemporanea si deve in larga parte proprio al suo talento pittorico, al suo saper trascinare lo spettatore in un flusso di sensazioni e suggestioni visive sempre di grande piacere estetico. Eppure In the Mood, 2046 e La Mano non sono soltanto dei grandi affreschi visivi, ma anche dei grandi affreschi musicali. Se queste recenti opere sono diventate, negli ultimi anni, dei cult movie – quanto meno per un pubblico cinefilo – parte del merito va proprio alle loro colonne sonore che stabiliscono un rapporto di indissolubile aderenza nei confronti dell’intreccio del film. È infatti proprio il connubio di musica e immagine a scolpirsi nella memoria dello spettatore. Possiamo forse ricordare una qualche scena di In the Mood senza che ci torni in mente anche il tema del malinconico walzer che attraversa così tanti momenti del racconto? O ripensare al languore sensuale che pervade 2046 senza farlo coincidere con il tema della dolente rumba che accompagna tutti gli addii tra amanti raccontati dal film? La scelta dei materiali musicali e le modalità con cui vengono utilizzati nell’ultimo cinema di Wong Kar-wai è una questione di estremo interesse, eppure al pari di altre – come, per esempio, il debito dell’autore nei confronti della letteratura sudamericana – non è stata ancora abbastanza indagata. Volendo quindi tentare di condurre un discorso analitico e puntuale in merito, diventa necessario prima – per motivi di chiarezza e completezza appunto – riflettere brevemente sulla natura intrinseca di questi tre film e sui rapporti che sussistono fra loro.

Con In the Mood for Love, 2046 e La Mano, Wong Kar-wai (reduce da opere che perlopiù avevano indagato la contemporaneità)1 ha realizzato un personalissimo trittico su una scheggia di tempo (gli anni ’60) calata, a sua volta, in una scheggia di spazio (tra Hong Kong, Shangai e Singapore), il tutto filtrato attraverso le coordinate tematiche che da sempre disegnano la sua poetica, giunta a questo punto, forse, alla sua espressione più alta e sincera. Una definizione che potrebbe sintetizzare il senso del suo ultimo cinema è questa: Wong racconta, da quell’appassionato narratore che è (o delegando il compito ai suoi personaggi), l’evolversi del sentimento amoroso, stretto dentro una morsa spazio-temporale che lo rende unico, irripetibile e lo trasfigura in impalpabile ricordo. Il risultato può essere definito come un “trittico sull’amore vissuto negli anni ‘60”; proprio in quegli stessi anni che nel tracciato dell’esistenza del regista corrispondono all’infanzia, e al momento cruciale del suo trasferimento con la famiglia da Shangai a Hong Kong.2 L’ultimo cinema wonghiano è un cinema quindi della memoria, in cui a fianco della consueta rappresentazione dell’amore infelice (il tema che l’autore da sempre predilige) viene ad inserirsi un terzo destabilizzante incomodo: il Tempo. In the Mood for Love è un film ambientato al passato che parla al presente, 2046 è un film proiettato – come suggerisce il titolo stesso – verso una data del futuro, ma che ci (e si) parla al passato, La Mano è un racconto breve che si apre in medias res, parte della storia è gia accaduta è può essere solo ricordata con sensuale trasporto, il resto sta per accadere nell’imminente.

L’espressione “trittico” non ci deve comunque trarre in inganno, perché fra queste opere – realizzate praticamente in contemporanea, a cavallo del 2000 e del 2004 – Wong si guarda bene dallo stabilire uno scontato rapporto di filiazione diretta, nessuna, per intenderci, funge da prequel o sequel dell’altra. Il rapporto è casomai quello ora della specularità o dell’antitesi. Accomunati dall’appartenenza allo stesso genere (il melò aperto comunque anche ad altre suggestioni) e ambientati nella stessa epoca (gli anni ’60), In the Mood, 2046 e La Mano inseguono analoghi temi e ossessioni, sono popolati dai medesimi personaggi (incarnati dai volti più celebri dello star-system honkonghese) che scompaiono e ritornano da un film all’altro con la stessa imprevedibilità, ma ciascuno possiede di fatto un ritmo, una struttura e uno stile assolutamente proprio. Lampanti sono per l’appunto le differenze formali; se in In the Mood il controllo esercitato sull’emotività dei personaggi si traduce in un estenuata eleganza formale, chiaro prodotto di una volontà di alludere e di non esplicitare mai fino in fondo, in 2046 e ne La Mano il dominio assoluto sulla forma e sul racconto viene leggermente meno, l’immagine sembra sfaldarsi di fronte allo sguardo e l’emozione, il desiderio e la passione si dispiegano con maggiore libertà. Pertanto si può dire più esattamente che questi racconti di amore e di perdita sono il riflesso, il doppio – ogni volta opportunamente trasformato o addirittura deliberatamente stravolto – dell’altro. Proprio l’immagine narcisistica dello specchio è adattissima per rendere metaforicamente la natura concentrica e autocitazionista dell’ultimo cinema del regista asiatico. Con il trittico sugli anni ’60 l’universo di Wong Kar-wai tende a configursi sempre più come un intricato labirinto tappezzato di specchi dove, scrive Mauro Caron, “un’ immagine rimanda a un’altra immagine, un corpo a un altro corpo, un volto a un altro volto, una lacrima a un’altra lacrima”3.

Arrivando a parlare delle colonne sonore, dopo questa doverosa riflessione, va detto per prima cosa che, data la particolare ambientazione cronologica e il registro melodrammatico, il regista ha dovuto, di volta in volta, porsi un duplice e difficile obbiettivo: studiare una colonna sonora che, da un lato, ricreasse la realtà musicale e culturale degli anni ‘60, e che, dall’altro lato, stabilisse un rapporto di sintonia e di dialogo con le situazioni raccontate, di natura appunto altamente melodrammatica. Stupisce pertanto scoprire che, quantomeno nel caso di In the Mood e di 2046, Wong abbia fatto realizzare ex novo solamente un paio di brani e per il resto si sia servito di musiche preesistenti e ricavate dai contesti più disparati. Quasi tutti i pezzi che compaiono in In the Mood for Love – eccezion fatta per il contributo di Michael Gallasso che firma il già citato tema dell’epilogo – non sono infatti originali. E anche in 2046, per cui pure prestigiosi compositori come Shigeru Umebayashi e Peer Raben hanno scritto musiche nuove, confluiscono, per la maggior parte, melodie e canzoni di vecchia data e peraltro molto celebri. Così a quell’effetto di dejà vu che scaturisce appunto dall’ abitudine a riutilizzare situazioni e immagini tratte dal proprio serbatoio autoriale viene ad aggiungersi adesso un effettto di “già sentito” perché in questi due lungometraggi Wong gioca a mescolare assieme materiali musicali già di per sé celeberrimi, e provenienti da ambiti sempre diversi: da un’altra lingua, da un’altra epoca, e perfino dal film di un altro autore. In In the Mood for Love e 2046 ritroviamo affiancati, senza difficoltà alcuna, brani dell’opera di Pechino a brani del bel canto italiano, ritmi sudamericani al valzer, canzoni in spagnolo a canzoni cinesi locali ecc… Prima ancora di assolvere una funzione evocativa o allusiva nei confronti del racconto, questi collage musicali servono all’autore a rinviare alla natura multiculturale e multisfaccettata della sua location di sempre, Hong Kong. L’ex colonia, città misteriosa in cui il pensiero orientale incontra il pensiero occidentale, in cui si mescolano il meglio e il peggio di queste due millenarie culture, non può che accogliere al suo interno – come naturale conseguenza – le suggestioni sonore più distanti e diverse fra loro. Wong Kar-wai stesso racconta in un’intervista che la prima cosa che lo colpì di Hong Kong, all’epoca del suo trasferimento, furono proprio i suoni e i rumori della città, completamente diversi da quelli della natia Shangai. Con La Mano il regista ha compiuto – almeno in termini di finzione cinematografica – un viaggio “al contrario”, abbandonando l’usuale ambientazione honkonghese per quella della metropoli cinese, a cui deve appunto le sue origini. E di fatto il soundtrack del mediometraggio si struttura in maniera completamente diversa rispetto a quella delle due opere immediatamente precedenti. Dal momento che Shangai non era certo negli anni ‘60 un crocevia tra Oriente e Occidente come Hong Kong, Wong ha accuratamente evitato, in quest’ultimo caso, d’inserire musiche di derivazione europea o americana.

Per analizzare più dettagliatamente le colonne sonore di ciascun film del trittico sarà necessario ripercorrere di volta in volta anche la trama del film in questione, dato che la musica nei progetti wonghiani stabilisce un rapporto di perenne dialogo nei confronti della storia e dei personaggi.

In the Mood for Love (2000) nasce dalla volontà di rendere omaggio ai cosiddetti wenyi pian4, i tradizionali melodrammi cinesi molto in voga negli anni ‘50 e ’60. Il film racconta la lenta evoluzione del rapporto tra un uomo e una donna originari di Shangai, Chow Mo-wan e Su Li-zhen (magistralmente interpretati dai divi Tony Leung e Maggie Cheung), che si ritrovano a essere vicini di casa nell’Hong Kong del ’62. Tutto comincia tra loro dal momento in cui scoprono che i rispettivi consorti sono da tempo amanti. Fatalmente legati l’uno all’altro dallo stesso dolore, i due iniziano a frequentarsi, diventano amici, scrivono assieme un romanzo di argomento cavalleresco e danno vita a una sorta di teatro dell’assurdo in cui assumono i ruoli dei consorti fedifraghi. Inutile dire che Chow e Li-zhen finiscono a loro volta per innamorarsi, ma in nome di quell’etica del sacrificio e del pudore che sempre determina le trame dei wenyi, decidono di non dichiararsi e di seppellire il loro sentimento in un silenzio stoico. Nell’epilogo ritroviamo il protagonista maschile che, a quattro anni di distanza dalla mancata relazione con Su Li-zhen, vaga per le rovine del tempio cambogiano di Angkor Wat e, seguendo un antico rituale, confida nella crepa di una parete il suo segreto d’amore, al fine di preservarlo intatto per l’eternità.

Mai come per In the Mood for Love l’autore si è così sforzato di ricreare la complessa realtà musicale della colonia nei primissimi anni ‘60.Del resto fra tutte le opere wonghiane questa è sicuramente la più fedele e precisa nella ricostruzione della dimensione storica e culturale di quei giorni andati. A fianco infatti della delicata storia di Chow e Su Li-zhen, Wong riesce anche a tratteggiare un vivido affresco della vita dei cinesi originari di Shangai immigrati nella colonia. Per sua stessa ammissione, il regista si è servito in questo dei ricordi della sua infanzia, l’infanzia appunto di un bambino immigrato e appartenente alla comunità shangaiese . Il punto di partenza per la ricostruzione degli ambienti, degli abiti, delle acconciature, delle mode musicali, dell’atomsfera – il mood – di un’intera epoca è stata quindi la filigrana delle memorie dell’autore. In Wong Kar-wai infatti non c’è mai tanto la volontà di attenersi pedissequamente a dei principi di verosimiglianza storica, ma più che altro l’istinto ad avviluppare qualsiasi rifacimento in un alone dorato di nostalgia e di sogno. Malgrado infatti la sua grandissima maestria e precisione nel ridar vita agli usi e ai costumi di una certa minoranza etnica in una determinato periodo, il film non ci mette mai dinnanzi al “vero” ma al ricordo del “vero”, con una forte tensione verso la trasfigurazione mitica e simbolica.

Buona parte della musica di In the Mood è intradiagetica e proviene dalla radio, sicuramente il più grande mezzo di comunicazione e intrattenimento di quei tempi assieme al cinema. Il mosaico di brani che il regista seleziona riflette perlopiù i gusti dei numerosi immigrati di Shangai, che ancora negli anni ’60 volevano un tipo di musica – e anche di cinema – che li facesse sentire vicini alla loro città abbandonata5. Numerosi sono per esempio gli estratti – pingtan – presi in prestito dalla gloriosa tradizione dell’opera di Pechino, dell’opera cantonese (variante dialettale della prima) e dall’opera di Zheijang. Wong si è servito di vecchie incisione realizzate tutte da leggendari interpreti. Fra questi canti, in genere scarsamente apprezzati dagli occidentali per via del loro stridente falsetto, spicca in particolare Si Lang Tan Mu, eseguito da Tan Xin Pei6 (1847-1917), uno dei più grandi artisti dell’opera di Pechino. Da notare che in genere i soggetti dell’opera sono presi in prestito dai classici della letteratura cinese e immancabilmente raccontano storie d’amori proibiti e incontri segreti. Tutto sommato quindi la loro presenza in In the Mood, storia di un amore furtivo, è pertinente anche da un punto di vista tematico, oltre che storico-culturale. A fianco di questi estratti appartenenti a una delle più auliche tradizioni cinesi, Wong introduce alcune canzoni locali, di sapore ben più popolare e emblematiche delle principali correnti musicali in voga allora ad Hong Kong. La dolcissima ballata Huayang de Nianhua è un ottimo esempio della diffusione e del successo della canzoni in mandarino. Modellata intorno al tema di Happy Bithday, Huayang de Nianhua viene fatta trasmettere nel corso di una trasmissione radiofonica dal marito adultero di Su Li-zhen proprio in occasione del compleanno della donna. Interprete del brano è Zhou Xuan (1918-1957), famosissima cantante e attrice originaria di Shangai e attiva a Hong Kong sul finire degli anni ’40. Sebbene la canzoni mandarine – tra cui appunto quelle di Zhou Xuan – dominassero il mercato della colonia negli anni ’60, non mancavano allora neppure quelle in inglese, interpretate sempre da artisti locali e diffuse soprattutto tra i giovani che erano la componente più occidentalizzata della popolazione. Bengwan Solo eseguita da Rebecca Pan è esemplare all’interno del film di quest’ultimo filone. La carriera di questa celebre cantante rappresenta, in termini artistici, il perfetto incontro tra l’Oriente (per le sonorità utilizzate) e l’Occidente (per la lingua dei testi).Per altro la Pan è anche membro del cast di In the Mood for Love: è lei infatti ad interpretare il ruolo dell’invadente affittuaria di Su Li-zhen, Mrs Suen. Già nel ’90 aveva lavorato come attrice per Wong Kar-wai in Days of Being Wild, dove vestiva i panni della madre di Leslie Cheung. Il regista ha affermato che quest’artista ormai anziana, ottima conoscitrice della musica occidentale, gli ha sempre offerto una valida consulenza nella scelta dei brani, e soprattutto lo ha introdotto al mondo delle sonorità latino-americane, quello per intenderci di Xavier Cugat e Nat King Cole. Spesso gli spettatori si stupiscono quando nei film di Wong Kar-wai si sentono canzoni in spagnolo. Nel suo film del ’97 Happy Together, l’intervento di brani come il malinconico Tango Apasionado di Astor Piazzola e la sognante Cucurrucucù Paloma di Caetano Veloso trovavano una giustificazione narrativa dal momento che la vicenda si svolgeva per grande a Buenos Aires. Diversamente, in un’opera di ambientazione panorientale come In the Mood, la presenza di molte delle canzoni in spagnolo di Nat King Cole (Aquellos Ojos Verdes, Quizás,Quizás, Quizás e Te quiero Dijiste) lascia dapprincipio perplessi. In realtà, al di là di una scelta che deriva da fattori anche autobiografici ed affettivi (Cole era il cantante preferito della madre di Wong) l’utilizzo di questi celebri brani è assolutamente giustificato anche da un punto di vista storico. Il regista ha più volte spiegato nelle interviste che la musica latina costituisce un “riferimento temporale” nel film. Negli anni ’60 infatti le sonorità di matrice latina erano molto popolari a Hong Kong – nelle programmazioni radiofoniche come nelle sale da ballo – perché la maggior parte dei musicisti attivi nella colonia provenivano dalle Filippine, dove l’influenza ispanica era naturalmente molto forte. La canzoni eseguite da Cole assolvono nel film anche un ulteriore funzione, quella di contrappunto esteriore e ironico al racconto. Parlando in seguito di 2046 e de La Mano, noteremo come questo espediente – voluto contrasto tra la situazione rappresentata e la natura del commento musicale – sia estremamente frequente nel cinema di Wong Kar-wai.7. Te quiero Dijiste, trionfo del più convinto romanticismo, viene per esempio inserita subito dopo la fatidica cena in cui Chow e Su Li-zhen hanno avuto modo di confidarsi il reciproco e purtroppo fondato sospetto che i loro coniugi siano amanti. La canzone, il cui ritornello recita: “Te quiero mucho, mucho…”, accompagna il desolato vagare dell’uomo e della donna per un’Hong Kong deserta, mentre iniziano a fare i conti con questa nuova dolorosa consapevolezza. E ancora Quizás,Quizás, Quizás compare ciclicamente in tutti i momenti di massima suspense della vicenda: quando lo spettatore si chiede se Su Li-zhen accetterà di partire per Singapore con Chow, o quando la donna telefona all’amato e resta a lungo in silenziosa attesa prima di riattaccare, o dopo i loro misteriosi incontri nella camera di un hotel, insomma in tutte le situazioni in cui il regista e i suoi personaggi si ostinano immancabilmente a nascondere, a non chiarire mai le risposte che vorremmo avere.

Le musiche di In the Mood for Love che più s’imprimono nella memoria e nella fantasia dello spettatore sono però soprattutto quelle extradiagetiche come il tema principale, Yumeji’s Theme, e il tema conclusivo Angkor Wat Theme, di cui abbiamo parlato brevemente all’inizio. Yumeji’s Theme è un valzer scritto dal giapponese Shugeru Umebayashi per un film del ‘91 di Suzuki Seijun intitolato appunto Yumeji. Umebayashi, che collaborerà anche alla colonna sonora di 2046, ha iniziato a lavorare nel cinema nel 1985, anno in cui ha interrotto la sua esperienza come leader degli “Ex”, una rock band della “new wave” giapponese. Tra i suoi lavori per il grande schermo, oltre naturalmente a quelli per Wong Kar-wai, vanno citati And Then… di Morita Yoshimitsu, All Under the Moon di Sai Yoichi, The Christ of Nanjing di Tony Au, e House of Flying Daggers di Zhang Yimou. Recentissima è la sua collaborazione per Mare Nero, il film dell’italiana Roberta Torre, uscito quest’anno. Dunque il sensuale e malinconico valzer, che accompagna gli incontri tra Mr. Chow e Mrs. Chan, era stato scritto in origine per un altro film, nondimeno esso risulta assolutamente perfetto nel contesto di in the Mood for Love. Ed è anche significativo che il tema principale del film sia proprio un valzer, il più “composto” fra i balli da camera, quello in cui i passi dell’uomo e della donna, così rigidamente codificati, rinviano al paradosso di un corteggiamento in cui la passione deve essere frenata dai precetti sociali e dai ruoli obbligatoriamente incarnati dai due sessi. Yumeji’s Theme, con il suo elegante e cerimonioso arrangiamento di archi, è quindi adattissimo ad esprimere la passione trattenuta ed esitante tra Chow e Su Li-zhen. Il regista stesso ha dichiarato di aver immaginato fin da subito che la storia dovesse avere l’andamento ieratico di un valzer, dovesse procedere proprio come “due personaggi che ballano insieme lentamente”.

Il tema di Angkor Wat, che accompagna la sequenza conclusiva ambientata nel famoso e omonimo tempio cambogiano, è opera del compositore americano Michael Galasso. Di nazionalità statunitense, Galasso è un violinista e direttore d’orchestra di fama internazionale. La sua carriera come compositore per il cinema è cominciata con la realizzazione della colonna sonora del film di Louis Wilson The Life and Times of Josef Stalin. Molteplici sono state inoltre le sue collaborazioni in ambito teatrale con coreografi come Lucinda Childs e Andy De Groat. Il motivo di Angkor Wat con il suo tono lento e un po’ luttuoso conferisce, come si diceva all’inizio, un ulteriore pathos tragico al momento in cui Chow sancisce l’eternità del suo amore, confessandolo alle spoglie dell’unico luogo del film che si eleva al di sopra dell’inesorabile procedere del tempo. Certamente, se le platee di tutto il mondo hanno singhiozzato per la passione senza futuro tra i due timidi vicini di casa, il merito va anche a questi due splendidi brani. La colonna sonora riveste quindi in In the Mood un ruolo di capitale importanza, non solo in quanto fattore necessario per la ricostruzione spazio-temporale del racconto, ma anche per la sua capacità di esibire in maniera mai retorica i sentimenti dei protagonisti.

Filippo Bergonzoni ha svolto un’affascinante interpretazione dell’opera di Wong Kar-wai alla luce di certi assunti della filosofia di Ludwig Wittgenstein.8 Tale analisi ci porta ad attribuire dei meriti e delle valenze in più alle musiche del film. Secondo il critico, In the mood for Love racconterebbe la storia di un uomo e di una donna che si ostinano a non dichiarare il sentimento che nutrono l’uno per l’altra – la loro disposizione appunto per l’amorenon tanto per questioni di riserbo e di rispetto della morale corrente, ma piuttosto perché sono consapevoli che il linguaggio umano, per suo limite innato, non è capace di esprimere, di raffigurare qualcosa di misterioso e evanescente come l’amore9. I due in pratica si manterrebbero fedeli all’inquietante e lapidaria sentenza che chiude il Tractatus logicus-philosophicus di Wittgenstein: “Tutto ciò che può esser detto si può dire chiaramente; e di ciò di cui non si può discorrere si deve tacere”. L’innamoramento rientrerebbe, come istintivamente intuiscono Chow e Su Li-zhen, nelle sfera dei discorsi di cui si deve tacere. Se si accetta la lettura di Bergonzoni, la musica diventa allora nel film il veicolo principale per colmare il vuoto di tutte le parole d’amore che l’uomo e la donna consapevolmente scelgono di non pronunciare, e per riuscire, al tempo stesso, ad evocare la tensione emotiva che esiste comunque fra loro. A conferma di questa tesi, bisogna notare che le scene più importanti, più dense di significato, sono proprio quelle in cui interviene solo la musica, mentre i due protagonisti rimangono in assoluto silenzio. Il motivo di Yumeji ricorre infatti principalmente nel corso di sequenze sottoposte a ralenti (un tipico espediente wonghiano che riesce a creare una certa complementarietà tra il tempo della sequenza e quello della musica) in cui o Chow e Li-zhen sono insieme ma non scambiano neppure una parola, oppure in cui solo uno di loro e presente sullo schermo ma rimane ugualmente muto. Esemplari del primo caso sono i loro numerosi e fugaci incontri serali negli stretti vicoli di una Hong Kong bagnata da piogge torrenziali. Per quanto riguarda invece il secondo caso, un buon esempio può venire dalla splendida sequenza in cui la protagonista, onde evitare i pettegolezzi dei vicini, decide di non andare a trovare Chow in albergo, ma di restare invece a casa con loro a giocare a Mahjong. Il ralenti e la musica dilatano in maniera estenuante l’azione della donna che, “prigioniera” della stanza invasa dagli insopportabili coinquilini, volge momentaneamente loro le spalle e si ferma davanti alla finestra aperta, sorseggiando un bicchiere d’acqua. Nessuna battuta wittgensteianamente priva di senso viene sprecata dalla sceneggiatura, tutto è avvolto dal silenzio, ma il movimento sinuoso e rallentato della macchina da presa e l’accompagnamento del valzer non lasciano dubbi su quale sia l’oggetto dei pensieri di Su Li-zhen in quel momento.

Fratello gemello” di In the Mood for Love, suo “doppio” o sua “antitesi” che dir si voglia, 2046 (2004) prende le mosse esattamente dall’episodio conclusivo del film precedente – la confessione nella crepa di Angkor Wat – trasponendolo però in una dimensione simbolico –visionaria, che anticipa il connubio di fantascienza e melodramma di questa nuova opera. Protagonista della vicenda è ancora Chow Mo-wan (sempre interpretato dall’ottimo Tony Leung) trasformatosi, adesso, da marito fedele e ingiustificatamente tradito in scrittore dedito alla letteratura di fantascienza e playboy dai modi cinici e disincantati. Nello spazio asfittico della camera 2046 del Grand Oriental Hotel (evidente richiamo alla stanza degli incontri con Su Li-zhen in In the Mood), Chow è alle prese con la scrittura di un romanzo – intitolato per l’appunto “2046” – a metà tra l’autobiografico e il fantascientifico. Attraverso un complesso e incessante andirivieni tra passato, presente e un immaginario futuro, con tanto di scenari alla Blade Runner, l’uomo ripercorre gli incontri che hanno marcato la propria deriva esistenziale, in una ricerca esasperata dell’oblio come vana pace dei sensi; in particolare Chow rievoca quattro donne – una giocatrice d’azzardo di Singapore, l’intelligente e sensibile figlia del suo albergatore, due spregiudicate ballerine di night – incontrate negli anni immediatamente successivi alla mancata liason raccontata in In the Mood for Love. Il protagonista s’illude, di volta in volta, di scorgere dietro ciascuna di queste quattro “dame di cuori” il fantasma di Su Li-zhen. L’amore inesploso e non pienamente compreso che il film del 2000 raccontava – o a cui, per meglio dire, alludeva- diventa in 2046 un ricordo allucinato che genera rimpianto e frustrazione. Gli uomini e le donne del racconto, esattamente come gli androidi e i ginoidi del futuro che Chow immagina, patiscono la dolorosa consapevolezza di non riuscire ad amare “a tempo”, di non riuscire a cogliere la giusta occasione. Il risultato è ancora una volta nel cinema di Wong Kar-wai la solitudine e il celibato.

Dato il complesso apparato di temi, situazioni e scenari che il film mette in campo, il regista ha dovuto servirsi di una colonna sonora, se possibile, ancora più ricca e variegata di quella di In the Mood for Love. Discostandosi, in parte, dalla sua abitudine a utilizzare perlopiù brani non originali, Wong commissiona, stavolta, a Shugeru Umebayashi la realizzazione ex novo del tema principale. Il risultato è 2046 Main Theme (with Percussion) che, con il suo ritmo serrato e gravido di tensione, attraversa l’intera vicenda, e arriva a suggellare anche il finale “politico”e allarmistico del film, in cui sull’immagine di una ipotetica Hong Kong del futuro la voce fuori campo di uno speaker annuncia che nell’anno 2046 l’ex colonia ritornerà definitivamente sotto la Repubblica Popolare Cinese. Il motivo conduttore, inesorabile e cadenzato come il tempo che scorre verso questa fatidica data del futuro, è sicuramente quello che meglio si annoda alla riflessione sul divenire storico di Hong Kong, sotterraneamente inserita nel film. A Shiregu si devono anche alcune più spoglie variazioni essenziali dello stesso tema come 2046 Main Theme (Rumba Version) o Polonaise.

Per 2046 il regista ha potuto contare anche sul contributo di un altro celebre compositore, Peer Raben. Famoso principalmente per le colonne sonore dei film di Rainer Werner Fassbinder – ha lavorato infatti a Il matrimonio di Maria Braun, a Veronika Voss e a Querelle – Raben è stato contattato da Wong Kar-wai nel 2000 in occasione della presentazione in Germania di In the Mood for Love. Di fatto l’artista non ha scritto brani nuovi per il film, ma ha riadattato pezzi da lui creati per opere precedenti; è il caso, per esempio, del malinconico Dark Chariot che nel film scandisce tutti i dolorosi addii tra Chow e le sue donne, ma che in realtà era stato scritto nel 1982 per Querelle10. L’inusuale scelta compiuta dal regista e da Raben fa sì , in pratica, che al brano venga conferita nuova vita. Abbandonando il vecchio contesto in cui era stato concepito per uno nuovo, questo materiale musicale può essere quindi riattualizzato e, inutile dire, la somma dei significati che si trascina dietro aumenta in maniera esponenziali. Peraltro Wong fa inserire all’interno della trama melodica di Dark Chariot dei rumori “estranei”, simili allo sferragliare di treni e al vociare confuso e anonimo di una folla, aggiungendo quindi al brano non originale un tratto nuovo e assolutamente peculiare. Il treno – trasfigurato dalla fantasia del protagonista in un favoloso veicolo che collega diverse dimensioni temporali e psicologiche – è del resto una delle immagini cardine di tutto il film.

In 2046 compaiono anche altri due pezzi strumentali provenienti da altri universi cinematografici: Julien et Barbara di Georges Delerue, tratto dal colonna sonora di Finalmente Domenica (Vivement Dimanche, 1983) di François Truffaut, e Decision – Tu ne tueras point di Zbigniew Preisner, preso a prestito da Kroti Film o Zabijaniu (lett: Un breve film sull’Uccidere, 1987) di Krzysztorf Kieslowski. Il primo lo si ricorda nella sequenza in bianco e nero che mostra Chow e Bai Ling (la donna che sta per diventare la sua nuova amante) seduti sui sedili posteriori di un taxi. L’uomo semiaddormentato o forse un po’ ubriaco cerca di accarezzare la mano della ragazza che invece lo respinge. La situazione ricalca per antitesi l’affettuoso e pudico sfiorarsi delle mani dei due amanti di In the Mood, mentre viaggiano la sera in taxi. La malinconica musica di Delerue, nata originariamente per l’ultimo film di Truffaut, è perfetta in questo contesto carico di rimandi e di significati che si accavallano (Chow cerca la mano di Bai come un tempo cercava la mano di Su Li-zhen in un vano tentativo di far rivivere il passato). Il secondo brano, ripreso da uno degli episodi del Decalogo di Kieslowski, marca invece con la sua solennità apocalittica l’incipit del film. Truffaut, Fassbinder e Kieslowski: queste citazioni musicali dai loro film che cosa sottintendono? Wong Kar-wai ha spiegato che alla base di tali scelte vi è la volontà di rendere omaggio a tre dei suoi registi europei preferiti, nonché ai diversi momenti della sua vita in cui ha avuto modo di vedere le loro opere. Al ricordo del film si sovrappone – secondo i suoi intenti di regista e di cinefilo – il ricordo dell’occasione in cui si è visto il film in questione Ma è lecito chiedersi se dietro ci sia anche dell’altro, se cioè Wong non voglia tutto sommato stabilire un’analogia (Tematica? Stilistica? Esistenziale?) tra la sua opera e quella dei suoi illustri colleghi. La filmografia dell’autore orientale, non dimentichiamolo, è nata in parte dalle ceneri di una supposta riverenza nei confronti del cinema d’autore europeo, e sebbene non vi sia alcuna somiglianza di trama tra 2046 e il giallo truffautiano Finalmente Domenica, o il melodramma a sfondo omosessuale Querelle, o ancora la riflessione teologica di Kieslowski, innegabilmente il legame sussiste già per il fatto che il cineasta di Hong Kong ha tentato, al pari di questi grandi cineasti scomparsi, di indagare con un tratto sempre più forte e personale l’ambito del melodramma. Con 2046 – la sua opera, fino ad oggi, più complessa e stratificata – Wong rende sì omaggio alla tradizione del cinema europeo, ma si permette – forte ormai di uno stile e di una poetica autonomi – anche di “sfidare” sottilmente questa stessa formidabile tradizione.

Come già accadeva per In the Mood for Love, il film sfodera inoltre un variegatissimo mosaico di ballate in spagnolo, ritmi latini, arie della lirica italiana e canzoni della miglior tradizione anglosassone.Tutto questo, da un lato, per sintetizzare lo spirito dell’epoca, dall’altro, per rinviare al nucleo tematico centrale, che è quello della perdita affettiva. La struttura di 2046 è assimilabile a un grande affresco di storie incastrate fra loro. La narrazione fluviale e frammentata del film si snoda infatti attraverso una serie di episodi di varia lunghezza; ogni episodio ruota intorno all’entrata in scena, e nella vita del protagonista maschile, di una nuova donna. Il regista cerca pertanto di costruire intorno a ciascun personaggio femminile un piccolo universo musicale che lo identifichi, ne rifletta il carattere, l’intima essenza. Il commento sonoro, adoperato perlopiù nei passaggi da un capitolo all’altro, assolve un ruolo, oltre che evocativo, di richiamo e di chiarificazione. Il brano originale di Umebayashi, Polonaise,desolata variazione del tema principale, ricorre per esempio nell’episodio incentrato sulla più misteriosa e sfuggente delle donne del film, la Vedova Nera Su Li-zhen (interpretata da Gong Li). Polonaise si qualifica inoltre nell’universo poetico ed esistenziale di 2046 come la musica “del rimpianto”, quella che meglio sintetizza il rammarico per le occasioni non colte. La seconda donna del racconto – che compare solo fugacemente – è la ballerina di nightclub dal duplice nome Lulù/Mimì. Lulù alias Mimì (Carina Lau) è un personaggio wonghiano di antica memoria. La sua prima comparsa risale infatti al secondo lungometraggio del regista, Days of Being Wild (1990), in cui veniva condotto il ritratto della tormentata giovinezza di cinque ragazzi – tra cui appunto Lulù – nell’Hong Kong dei primi anni ’60. In 2046 Lulù ritorna in scena e ha la possibilità di portare a termine il suo tortuoso itinerario emotivo della sua vita. La donna viene associata principalmente a due temi che rievocano, a loro volta, due aspetti costitutivi della sua personalità e del suo passato. Il primo, Dark Chariot di Raben, lo sentiamo nel momento in cui si ritrova sola nella camera 2046 e piange il fidanzato morto alcuni anni prima (il bellissimo giovane interpretato da Leslie Cheung nel precedente Days of Being Wild). Simile a una sorta di doloroso e acuto trillo notturno, questo brano svela il lato depressivo e inconsolabile del personaggio, forse proprio il suo lato più autentico. Il secondo tema, Perfidia di Xavier Cugat, con il suo andamento ripetitivo, solido e senza climax, rinvia invece a certe qualità di Lulù che sembrano inalterabili: la sua energia, il suo coraggio, la sua passionalità. Questa musica – peraltro già utilizzata per la colonna sonora di Days – accompagna uno dei più bei primi piani del cinema wonghiano: il volto perlaceo di Carina Lau che con l’immancabile sigaretta tra le labbra vermiglie sembra guardare lo stesso spettatore con aria di sfida.

Il tema di Wang Jing wen (Faye Wong), la figlia del gestore dell’albergo in cui Chow alloggia, è l’immortale Casta Diva di Vincenzo Bellini. La celeberrima aria di Norma accompagna la sequenza in cui la ragazza si sporge dal terrazzo del Grand Oriental Hotel, mentre ripassa i rudimenti di lingua giapponese, la lingua del suo innamorato lontano. L’abbinamento fra immagine e musica è particolarmente riuscita in questo caso perchè si ha la sensazione che le note acute del brano pervadano letteralmente il cielo terso di Hong Kong, e che la ragazza si sporga dalla balaustra nel vano tentativo di afferrarle. Curiosamente Wong non ha voluto utilizzare la grande interpretazione di Maria Callas, incisa negli anni ’50, bensì quella offerta da una nuova diva della lirica, il soprano Angela Georghiu. Il personaggio interpretato da Faye Wong è associato anche al tema Adagio dei Secret Garden. Tale brano interviene nella scena dello straziante abbraccio tra l’attrice, nel ruolo della ginoide WJW1967 (alter ego di Wang Jing wen nel romanzo di fantascienza che Chow scrive) e il “viaggiatore del futuro” Takuya Kimura, sul treno diretto a 2046. Sebbene il regista sia solito girare in assoluto silenzio, per questa sequenza in particolare ha fatto un’eccezione, lasciando che i due interpreti potessero ascoltare la musica durante la ripresa. Questo cambiamento, a detta della stessa Faye Wong, ha permesso loro di muoversi con maggiore trasporto e pathos.

La sfolgorante entrata in scena di Bai Ling (Zhang Ziyi), la nuova bellissima affittuaria della stanza 2046, è marcata invece dalla movimentata canzone in spagnolo Siboney, eseguita dalla “prepotente” voce di Connie Francis. Siboney era presente, nella versione strumentale di Xavier Cugat, anche in Days of Being Wild. Il riutilizzo di questo brano e del già citato Perfidia in 2046 alimenta quell’effetto di “già visto/già sentito” di cui si è già detto diverse volte. Se l’oscura Su Li-zhen è perfetta per la tristezza enigmatica di Polonaise e così Lulù nella sua Perfidia, mentre Wang Jing wen, unica passione platonica del protagonista, è decisamente la Casta Diva del film, Bai, la ragazza da cui tutti si sono fatti amare, ma che nessuno ha mai veramente ricambiato, è invece quella che fra tutte si trascina dietro più suggestioni musicali: dalla rumba al cha-cha, dalla celeberrima Sway di Dean Martin a Christmas Song di Nat King Cole. Tanti e diversi brani in linea con un temperamento più ricco di sfaccettature di quanto non appaia di primo acchito. Nella sequenza che chiude l’episodio a lei dedicato, Bai ci viene mostrata con gli occhi che si riempiono progressivamente di lacrime, mentre sente che nella stanza attigua alla sua Chow sta facendo l’amore con un’altra donna. La ragazza piange silenziosamente e in sottofondo tornano a farsi sentire le note di Siboney. Il ritorno della canzone, che aveva accompagnato il suo trionfale ingresso nella storia come donna bellissima e altera, sembra sancire adesso il senso di un destino e di un’infelicità ineluttabile. Al pari di altre eroine wonghiane, Bai sembra condannata a situazioni che la conducono immancabilmente all’abbandono e alla solitudine. In questo contesto di prostrazione la romantica e vitale Siboney produce volutamente un contrasto ironico e amarissimo, ben più efficace dell’uso di un brano scontatamente triste e lento.

Dall’ex cursus che abbiamo condotto finora capiamo che i riferimenti musicali che attraversano In the Mood for Love e 2046 sono davvero molteplici e arrivano a comporre degli affreschi sonori di maestosa grandezza. Per l’episodio di Eros11 (2004), Wong non ha certo dovuto preoccuparsi di far realizzare una colonna sonora delle dimensioni di siffatte dimensioni, data la brevità dell’opera (42’ minuti). Nondimeno anche dal punto di vista musicale, La Mano è un “piccolo gioiello” al pari di In the Mood e 2046. Prima, però, di addentrarci in qualsiasi riflessione più specifica sulla componente sonora del film, ripercorriamone velocemente la trama: nella Shangai del ’63 si consuma silenziosamente la passione del giovane e timido sarto Xiao Zhang (Chang Chen) per la bellissima prostituta d’alto bordo Hua Yibao (Gong Li). Dopo un primo fatale incontro in cui la donna lo inizia al piacere sessuale, il ragazzo decide di mettere la vita al suo servizio; la sceglie come sua unica cliente, confeziona per lei degli splendidi abiti da sera. Animato da una devozione che sconfina nell’annullamento di sé, Xiao Zhang rimane fedele a Hua anche quando l’amata, abbandonata dal suo protettore, cade in miseria ed è costretta ad andare a prostituirsi per le strade. Con La Mano Wong porta avanti le fila del discorso cominciato con In the Mood for Love e 2046 sul tema del desiderio inesploso e dell’elusione dei sentimenti. Il mediometraggio – che, come tutti i progetti wonghiani, si sottrae immancabilmente all’happy end – sviluppa infatti nuovamente una sorta di dialogo senza parole tra un uomo e una donna.

Sebbene il tatto sia sicuramente il senso protagonista nel racconto (tutta la passione di cui è intriso pulsa, infatti, nel tocco della mano laccata di Miss Hua, dispensatrice di un avaro sollievo erotico), i suoni e i rumori – e quindi l’udito – giocano, comunque, in esso un ruolo di non minore importanza. La quasi totalità delle sequenze (a cominciare dalla prima) sono costruite, infatti, tramite un sapiente utilizzo del suono fuori campo, espediente che serve al regista sia a far progredire la narrazione, sia a “caricarla”di quel tocco di mistero, suspense e voyeurismo che è tipico delle storie d’amore wonghiane12. Il miglior esempio di quanto detto ci viene sicuramente dall’incipit del film, in cui, dopo un paio di generiche inquadrature d’interni, abbiamo subito un primo piano del volto delicato di quello che scopriremo essere il protagonista della vicenda, e poco dopo sentiamo una voce di donna fuori campo che discorre con lui e lo esorta a ricordare il loro primo incontro avvenuto diversi anni prima. Durante la conversazione l’inquadratura “rimane ferma” sul viso del personaggio maschile e ne registra con scrupolo i minimi mutamenti d’espressione, di contro la voce femminile resta per tutto il tempo “fuori campo”, privata della sua identità: la udiamo ma non ci viene mostrato a chi realmente appartenga. Dalla sua richiesta a ricordare il primo fatidico incontro tra lei e il giovane scaturisce un lungo flash back: vediamo lo stesso uomo –leggermente più adolescenziale nell’aspetto – che suona al campanello di un appartamento, viene accolto da una domestica, e invitato ad aspettare, seduto in un grazioso salotto, che la padrona di casa lo riceva. Dalla stanza attigua al salotto il ragazzo sente provenire dei gemiti di passione; poco dopo esce dalla camera un uomo che se ne va immediatamente dall’appartamento, e lui viene invitato, a sua volta, ad entrarvi. Qui torniamo ad udire la stessa voce femminile dell’inizio che, relegata ancora solo momentaneamente al fuori campo, ordina con tono risoluto e perentorio al suo visibilmente imbarazzato ed eccitato ospite di avvicinarsi. Wong, desiderando condurre la sequenza al suo più alto grado di tensione emotiva e di suspense, ritarda il più possibile “l’apparizione” della donna. Soltanto quando ormai non è più possibile procrastinarla, il regista decide di fare emergere l’opalescente bellezza di Miss Hua dall’oscurità della sua camera da letto.

Questa volta il regista, dovendo ambientare la vicenda non più nella multiculturale Hong Kong ma nella cinese Shangai, ha accuratamente evitato d’inserire brani di derivazione occidentale e per la musica intradiagetica ha usato solo canzoncine d’epoca in cinese. Queste ultime con il loro tono perennemente leggero e spensierato offrono un perfetto contraltare con la tragicità della vicenda, un effetto questo, che come abbiamo visto, il regista ricerca spesso. Per il resto la colonna sonora è opera nuovamente di Peer Raben. A lui si devono i due temi principali del film: quello che sorregge con pathos appena trattenuto la sequenza iniziale e conclusiva della masturbazione, e quello tenerissimo che interviene nella scena in cui il devoto sarto Xiao Zhang (Chang Chen) tenta di prendere le misure della sua adorata Miss Hua (Gong Li) e le loro mani finiscono per intrecciarsi convulsamente tra loro, in cerca di reciproco sostegno. In questo caso la musica sembra letteralmente accarezzare i due personaggi che, a loro volta, si stringono in un lungo abbraccio. “Accarezzare” potrebbe essere forse il verbo più adatto ad indicare, sia pure metaforicamente, il rapporto che il commento musicale intrattiene nei confronti dei personaggi wonghiani; una sorta di abbraccio appunto, a volte trasognato, a volte pieno di ritmo, che nell’ultimo cinema dell’autore – talvolta definito come cinema della memoria – si traduce sempre più spesso in ieratica rèverie.

1 Si veda a questo proposito il cosidetto “dittico su Hong Kong” composto dalle due commedie Hong Kong Express e Fallen Angels, realizzate rispettivamente nel ’94 e ’95. Qui Wong indaga appunto la vita caotica e movimentata della metropoli negli anni ’90.

2 Wong Kar-wai nasce a Shangai nel 1958. A cinque anni si trasferisce a Hong Kong con la madre, in attesa che il resto della famiglia li segua. L’imminente scoppio della Rivoluzione Culturale impedisce però al padre, al fratello minore e alla sorella di raggiungerli nella colonia per alcuni anni. Per mantenere i contatti con i famigliari, il futuro regista imbastisce una fitta corrispondenza e oggi sostiene che proprio da lì sia sviluppata la sua passione per la scrittura e il desiderio di diventare sceneggiatore.

3 M. Caron, 2046 volte il primo bacio, “Segnocinema”, n° 132, marzo-aprile 2005. p. 12.

4 Il termine wenyi pian (da wenexue, “letteratura”, e yishu, “arte”) indica per l’appunto il melodramma d’ispirazione letteraria o paraletteraria. Questo genere (può essere sia cantonese che mandarino) discenda direttamente dalla tradizione del cinema di Shangai. Generalmente i wenyi raccontano storie d’amore in cui a prevalere è l’etica della rinuncia e del sacrificio per il mantenimento dello status quo; di solito i personaggi maschili sono ritratti come creature deboli e mediocri, mentre quelli femminili sono capaci di grandi sentimenti e di coraggio. A parte Wong Kar-wai, altri registi honkonghesi che negli ultimi anni hanno condotto delle riletture con spirito critico e moderno di questo filone sono i talentuosi Ann Hui e Stanley Kwan.

5 Ricordiamo un aspetto storico che il pubblico occidentale del film difficilmente può conoscere: gli immigrati di Shangai, arrivati a Hong Kong prima e dopo la presa del potere da parte dei comunisti nel 1949 ( tra cui appunto la famiglia di Wong Kar-wai) si ostinavano ancora negli anni ’60 a conservare la propria identità, il proprio stile di vita. Oltre a parlare in mandarino (invece che in cantonese, la lingua più diffusa nella colonia) questa comunità aveva la propria musica, i propri cibi, i propri rituali, nonché un proprio cinema. L’industria cinematografica mandarina di Hong Kong produceva infatti negli anni ’50 film che sembravano essere stati realizzati nella Shangai precedente al ’49. Tali film servivano a “consolare” il profondo senso di nostalgia che gli esuli provavano per la loro città. Naturalmente col passare degli anni la comunità shangaiese si è sempre più integrata nella vita della colonia e ha finito per perdere certi suoi tratti distintivi.

6 A Tan Xin Pei va anche il merito d’aver interpretato il primo film della storia del cinema cinese, Ding Jun Shan (1905).

7 In Happy Together del ’97 il contrasto è addirittura giocato tra il titolo stesso del film (che è anche titolo di una celebre canzone dei Turtles) e la storia che racconta, quella di due amanti paradossalmente “unhappy together”. La cover ricorre proprio nel finale quando i due si sono ormai separati.

8 F. Bergonzoni, Una dialettica traducibile e non dicibile. Lettura wittgensteiniana di In the Mood for Love, “Cineforum 442”, n°2, febbraio 2003.

9 Ricordiamo che la sceneggiatura di In the Mood for Love è estremamente parca e stilizzata. I dialoghi tra Chow e Su Li-zhen sono sempre misurati e “sintetici”; solo quando“recitano” i ruoli dei rispettivi coniugi i due parlano in maniera diretta e diffusa della propria intima vita sentimentale ma, come nota Bergonzoni a proposito di questi momenti, “si tratta appunto di una finzione, di una finzione, di una recitazione, e per questo le parole finiscono per perdere tutto il loro significato” (F.Bergonzoni, Una dialettica traducibile e non dicibile.Lettura wittgensteiana di In the Mood for Love, “Cineforum 422”, n°2, febbraio 2003, p. 46). Inoltre, in questo film Wong rinuncia a uno dei suoi espedienti narrativi preferiti, vale a dire, la voce off omodiegetica, lasciando la parola ai gesti, agli sguardi, all’andatura dei personaggi.

10 Il celebre compositore bavarese Peer Raben è stato, negli anni passati, accusato da Leonard Bernstein di servirsi di brani musicali preesistenti e di limitarsi a riarrangiarli, spacciandoli per propri. Raben naturalmente difende il valore della sua operazione artistica, sostenendo che il suo punto di partenza è proprio la citazione di materiali già in circolazione.

11 Eros (2004) è nato da un idea di Michelangelo Antonioni, e si è tradotto in un progetto che sfrutta la formula – molto diffusa negli anni ’60 e ’70 – del film a episodi. Utilizzando come filo conduttore il tema dell’erotismo, il grande regista italiano e i suoi più giovani“allievi”, Steven Soderbergh e Wong Kar-wai, realizzano quindi tre distinti mediometraggi. Antonioni firma Il filo pericoloso delle cose, Soderbergh Equilibrium, e Wong Kar-wai La Mano.

12 A questo proposito dell’ampio utilizzo del suono fuori campo nel cinema di Wong Kar-wai, ricordiamo, per esempio, che in In the Mood for Love i due coniugi adulteri non ci vengono mai mostrati direttamente, ne possiamo solamente udire la voce fuori campo.



Mio curriculum vitae
24 marzo 2009, 12:47 PM
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CURRICULUM VITAE DI DILETTA PAVESI

Informazioni personali

Nome: Diletta Pavesi

Indirizzo residenza: via Bianchetti 2, 44047 Sant’Agostino (Fe)

Telefono fisso: 0532 350098

Cellulare: 3339614520

E-mail: dilettapavesi@interfree.it

Data di nascita:17/11/83

Numero di matricola: 0000272092

Istruzione e formazione

Settembre 2007: iscrizione al corso di laurea specialistica “Cinema, televisione e linguaggi multimediali” presso “Università degli Studi di Bologna”. Al momento iscritta al secondo anno in corso.

Luglio 2006: Laurea in Arti dell’Immagine, Musica e Spettacolo, curriculum teatro e spettacolo. Laurea conseguita presso “Università degli Studi di Ferrara”. Tesi conseguita in Storia del cinema, “As time and Love go by: Wong Kar-wai e il trittico degli anni ‘60”. Relatore: Prof. Alberto Boschi, correlatore: Prof.ssa Roberta Gandolfi. Valutazione 110/110 e lode

Luglio 2002: Maturità classica. Diploma di maturità classica conseguito presso “Liceo Classico G. Cevolani” di Cento (Fe). Valutazione 98/100.

Esperienza lavorativa e formativa

Giugno-luglio 2007: inizio della collaborazione pagata come curatrice di bozze per la rivista online della facoltà di Lettere e Filosofia di Ferrara “Annali”. Direttore: Matteo Galli. La collaborazione continua tuttora, e a fianco dell’attività come curatrice delle bozze, sono a volte anche autrice di recensioni per la sezione di cinema.

Maggio-Giugno 2007: collaborazione pagata per il “Middlebury College School in Italy” di Firenze. Attività di tutorato volta a preparare gli studenti Erasmus provenienti dal Middlebury College (Vermont) nell’esame di Storia del cinema all’Università di Ferrara.

Gennaio 2007: pubblicazione universitaria. Intervento saggistico sull’uso della colonna sonora nell’ultimo cinema di Wong Kar-wai.

Maggio-giugno 2006: collaborazione pagata per il “Middlebury College School in Italy” di Firenze. Attività di tutorato volta a preparare gli studenti Erasmus provenienti dal Middlebury College (Vermont) nell’esame di Storia del cinema all’Università di Ferrara.

Febbraio-marzo 2006: tirocinio formativo presso la Biblioteca pubblica di Sant’Agostino (Fe) per la durata di 100 ore.

Maggio 2005: organizzazione di un ciclo di proiezioni dedicate alla figura femminile presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Ferrara.

2005-2007: collaborazione giornalistica per il periodico studentesco universitario “Orfeo”.

2002-2007: collaborazione giornalistica per la rivista online del comune di Modena “Stradanove”.



Intervista a Wong Kar-wai
22 marzo 2009, 6:00 PM
Filed under: 5. Interviste

Wong Kar-wai: sconosciuto ai più fino a pochissimi anni fa, il regista di Hong Kong è oggi considerato tra i migliori. Dopo In the mood for love, un enorme successo di critica e pubblico, sono usciti quasi contemporaneamente Eros, firmato anche da Michelangelo Antonioni e Steven Soderberg, e 2046, che riprende il discorso di In the mood for love.

2046 è in pratica il seguito di In the mood for love, stessa epoca, stesso protagonista: quali sono le differenze tra i due film?

Ve ne sono diverse: il giornalista, interpretato ottimamente da Tony Leung, in 2046 è diventato cinico, ha smesso di credere nei valori della famiglia, non è più capace di apprezzare una donna finché non entra a far parte del suo passato.
Mentre nel primo film v’erano i due ruoli principali ben definiti, in 2046 il giornalista, con le sue numerose relazioni ed i suoi ricordi, ma soprattutto con le trasformazioni appena dette, è protagonista unico.
In the mood for love racconta una storia d’amore, 2046 è un racconto di memorie: le mie, prima di tutto.

Il ritmo dei suoi film, 2046 in particolare, è piuttosto lento: un ingrediente indispensabile nella filmografia orientale o una sua scelta?

Una mia scelta, il ritmo lento rispecchia l’andamento che aveva la vita negli anni ‘60, quando non c’era la frenesia di oggi e le persona si fermavano più facilmente a riflettere sui propri ricordi.
Sono gli anni che ricordo con maggior piacere, ed ho scelto di immortalarli prima che vengano fagocitati dalla legge dell’usa e getta.

La parte più importante, o una delle principali, nei suoi film, sembra essere la colonna sonora.

È importantissima, è vero: ma non ha sempre lo stesso significato. In In the mood for love ho usato musica che negli anni ‘60 si ascoltava continuamente per radio, al fine di ricreare l’atmosfera del periodo. In 2046 è invece un miscuglio di generi diversi, ognuno associato ad un personaggio; una sorta di impressionismo musical-cinematografico, mirato ad evocare atmosfere nostalgiche.

Il finale non risolve la vicenda.

Risponderò con una metafora: un film, secondo me, è come un pasto incompleto. Il finale è il dessert che il pubblico è libero di scegliere, almeno tra quelli previsti nel ‘menu’.

Quale interesse trova nel raccontare storie di erotismo?

Parlerei di erotismo solo a proposito di Eros, che ho girato principalmente perché era l’occasione di lavorare con Michelangelo Antonioni, uno degli autori che mi ha maggiormente formato nel cinema e nella vita. Per quel che riguarda 2046 preferisco parlare di amore.

Già, ma un amore che non si concretizza.

Lo credo bene: non credo che uno spettatore possa desiderare un film che parla di amori felici, né sarebbe un film credibile. Comunque l’assenza del lieto fine non implica un finale amaro. Sta allo spettatore crearsi il finale più consono ai suoi desideri.

Il significato di 2046 è perlomeno oscuro.

In tutti noi c’è la necessità di avere un luogo dove nascondere o riporre le proprie memorie, i propri pensieri, impulsi, speranze e sogni.
Sono una parte della nostra vita sulla quale non possiamo decidere o meglio agire ma che al tempo stesso temiamo di abbandonare.
Per alcuni quel luogo è un posto fisico, per altri uno spazio mentale e per altri ancora, niente di tutto ciò. Comunque, per me l’essenziale non è se possiamo o meno raggiungere il personale 2046, ma se noi in quanto esseri umani vogliamo veramente avvicinarci a questo luogo dove scoprire o recuperare quelle vecchie memorie… una volta arrivati, credo che ognuno di noi verrà colpito e sopraffatto dal peso di tutto ciò che ci siamo sforzati di seppellire e dimenticare.

Sta forse pensando ad un seguito anche di 2046? Il finale, per quanto aperto, non sembra andare in questa direzione.

Difatti non ne ho intenzione. Penso che mi dedicherò a tutt’altro, anzi, ne sono sicuro: ci sono in ballo due progetti, La signora di Shangai con Nicole Kidman, niente a che vedere col film di Orson Welles, ed una storia ispirata alla vita di Bruce Lee, ma per ora non intendo dir di più… dovrete aspettarmi alla stanza 2006.



Wong Kar-Wai: the director who knows all about falling for the wrong people Interview di Elizabeth Weitzman
22 marzo 2009, 5:28 PM
Filed under: 5. Interviste

Throbbing may well be the perfect word to describe Wong Kar-wai’s frenetic universe. Lights flash, cars zoom, pedestrians bolt. And tearing through the rush of his world is a populace on a frantic search for gravitational pull. In their haste, they fall in love with all the wrong people, though this very contemporary romantic usually allows us to believe it’s for all the right reasons. Sometimes his frenzied couplings approach the ecstatically silly, as in 1994’s revelatory Chungking Express and its partner, Fallen Angels, which has just opened in the U.S.; other times they’re downright somber, as in last year’s Happy Together.

Wong has been Hong Kong’s reigning maverick for years, but Americans are just getting to know his inspired collaborations with cinematographer Christopher Doyle. The director swears their experimental, visually challenging style is mostly the result of chance. But it all works too well to accept his offhand implications of guerrilla filmmaking, and as he sits back, arms crossed and omnipresent shades obscuring half a poker face, only one thing is made clear: You want to know what’s going on in his head? Go see his movie. Then decide for yourself.

ELIZABETH WEITZMAN: You left Shanghai when you were only five, and your style is much more contemporary Hong Kong than classical Chinese. Do you associate yourself completely with Hong Kong?

WONG KAR-WAI: I was born and raised in cities, and I think I’m more interested in making films about cities in general, whereas most Chinese films are about the countryside.

EW: When you were working as a producer and writer in Hong Kong, was filmmaking always your ultimate goal?

WKW: No, because it seemed so far away at that moment. It happened suddenly, when a producer asked me if I wanted to make a film and I said, “Why not?” That started my career as a director [with As Tears Go By, 1988].

EW: In Fallen Angels, the comedy scenes, like when the dead pig gets a full-body rubdown, are really stand-alone set pieces. Do you think this strength comes from your early days as a sitcom producer?

WKW: No, I think it’s all because of the actors. They have these kinds of things they give out, and I get inspired by that. Especially Takeshi Kaneshiro. The idea of massaging the pig was his idea, and I thought it was good. Why not?

EW: Was your film Days of Being Wild [1991] autobiographical?

WKW: No. None of my films are autobiographical.

EW: You don’t pull anything from your life?

WKW: My life is too boring. I don’t think it can be an interesting film.

EW: So you wouldn’t say you identify with either of the heroes in Fallen Angels?

WKW: No. They are my film, but they are not me.

EW: SO if you don’t draw on your own life, where do your ideas come from?

WKW: People around me. Like, I use monologue in Chungking because whenever I make a film, I become very busy and my wife begins talking to herself, so I thought I should put that in.

EW: Do your family members see themselves in your films?

WKW: I have a very simple family. My mother and father have both passed away, so it’s only my wife and my three-year-old son.

EW: Missing parents is a common theme in your movies, right?

WKW: Yeah.

EW: But you wouldn’t consider that to be autobiographical at all?

WKW: No, it is quite different.

EW: Has becoming a father changed your perspective as a filmmaker?

WKW: Somehow, yes, but you know I’m still an intern as a father.

EW: Despite the contemporary feeling of Chungking Express and Fallen Angels, I think your movies are sort of old-fashioned. They’re really about people just looking to connect in a hyper-speeded-up modem world.

WKW: Yes. People have said, “You’re the hippest director in the world,” and I say, “I’m not hip.” I, too, think I’m very old-fashioned.

EW: Most of your movies blend tragedy with hope. Where would you place yourself on the optimist-pessimist scale?

WKW: All of the films, in fact, have ended with hope. And I think the last fifteen minutes of Fallen Angels is one of the most beautiful endings in my films. And this is my answer.

EW: My next question was whether or not you’d call yourself a romantic, but I think I already know the answer.

WKW: Well, I am just reasonable, not romantic.

EW: I’ve noticed that many of your characters, especially the men, bury their emotions beyond the reach of the people around them.

WKW: Mm-hmm.

EW: I’m wondering why you don’t want anyone to see your eyes.

WKW: Because I can sleep in an interview or in shooting, and so the sunglasses are very important to my career.

EW: Expired pineapple tins is a common theme in both Chungking Express and Fallen Angels. What is it about pineapple that’s so terrible?

WKW: Basically, I like fruits but I hate pineapple, so I think one of the best tortures for a character in my films is for him to be eating a lot of pineapple.

EW: Are your stylistic choices – the fump-cutting, slow motion, the wide angles – a collaboration between you and your cinematographer, Chris Doyle?

WKW: Our styles come from the way we work; like in Fallen Angels we started working in a very small teahouse, and the only way we could shoot the scene was with a wide-angle lens. But I thought the wide-angle lens was too normal, so instead I preferred an extreme wide-angle. And the effect is stunning because it draws the characters very close to the camera but twists the perspective of the space so they seem far away. It became a contrast to Chungking Express, in which people are very far away from the camera but seem so close. Also, we work with very limited budgets and we don’t have permits, so we have to work like CNN, you know, just breaking into some place and taking some shots. We often don’t have time for setups, and sometimes when neighbors walk into the frames we have to cut them out, and that becomes a jump cut. I think 10 or 15 percent is preconceived. Most of it just happens.

EW: You’re always being compared to Godard. Is that flattering for you, or tiresome?

WKW: Do they mean Godard himself, or Godard the general impression? People always say, “This guy’s films look like Godard’s” because they are difficult, not because they really look like Godard.

EW: But is he an influence on you?

WKW: Yes, of course. I think most filmmakers my age are influenced by Godard.

EW: Who else influenced you?

WKW: My mother.

EW: You cast some of the most popular actors in Hong Kong, but you always subvert their images. So you seem to be advancing the cult of celebrity while thumbing your nose at it at the same time. Putting Leslie Cheung and Tony Leung in the graphic sex scenes in Happy Together was like casting Brad Pitt and Tom Cruise as lovers.

WKW: Yeah. As an audience member, I prefer to see some stars to make me feel like I’m watching a movie.

EW: And how do you feel about working with them?

WKW: I don’t have any problems with it. They may hate me or love me, but that’s their problem, not mine. As long as I get my shot, it’s fine.

EW: Do any of them hate you?

WKW: Sometimes.

EW: But then they work with you again.

WKW: [smiles] Yeah.

EW: You know, we’ve been talking for nearly an hour and you’ve made no value judgments of any kind. You’re not pushing your ideas at all.

WKW: I hate to do that. One of the questions I hate most is, “What are your films about?” There’s no point in me explaining my films. If I can do that in words, why bother to make a film? Audiences should get their own ideas.

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Conversazione con Wong Kar-wai di Andrea Tagliacozzo
22 marzo 2009, 5:24 PM
Filed under: 5. Interviste

Intervista al regista di In The Mood For Love Come è nata la collaborazione tra te e Mark Li Ping-ping, l’operatore di Hou Hsiao-hsien, dopo che Chris Doyle ha abbandonato il set? Sappiamo che sei un estimatore di Hou Hsiao-hsien: il suo lavoro ha in qualche modo influenzato In the Mood for Love?
Prima di tutto devo dire che Mark Li ha collaborato con noi ben prima di In the Mood for Love. Nella mia carriera ho lavorato con tre operatori: il primo è stato Andrew Lau, che in seguito è diventato un regista di successo (è l’autore della serie Young and Dangerous e di hit come The Storm Riders e A Man Called Hero, n.d.r.); il secondo è Chris Doyle, con il quale ho avuto un rapporto discontinuo, perché dovete sapere che lui è sempre impegnato, per molteplici ragioni… magari perché ha appuntamento con una ragazza a Tokyo e deve sparire per un po’ di giorni, quindi spesso abbiamo dovuto cavarcela con la seconda unità; Mark, il terzo operatore, è in effetti con noi da diverso tempo, ci ha aiutato in Hong Kong Express e Angeli perduti. Dato che la lavorazione di In the Mood for Love ci ha portato via più del tempo del previsto, Chris è dovuto andar via per collaborare a un’altra produzione, così Mark è subentrato e ha finito il film. Per quanto riguarda Hou Hsiao-hsien, di cui sono molto amico, penso che sia uno dei grandi maestri del cinema cinese: una delle ragioni che mi ha spinto a realizzare In the Mood for Love è stato il suo The Flowers of Shanghai. Il film mi è piaciuto molto, ma la descrizione della gente di Shanghai, secondo me, non era del tutto corretta. È per questo che con In the Mood for Love ho voluto fare un vero film sugli «shanghainesi». Volevo fare un film sugli anni Sessanta, su quello spirito: un film sul «vicinato», che allora aveva un significato completamente diverso rispetto ad adesso. Oggigiorno, in effetti, non sappiamo nemmeno più chi vive nella porta accanto alla nostra… In the Mood for Love non è tanto una storia d’amore, quanto una storia che tratta delle condizioni in cui una vicenda sentimentale può svilupparsi. I protagonisti passano gradualmente dalla posizione iniziale di vittime, entrambi traditi dai rispettivi coniugi, a quella opposta, a loro volta di amanti. Non è quindi solo un film su una relazione extraconiugale, o sul matrimonio, bensì sulle condizioni che un amore si trova a vivere di momento in momento, con il passare del tempo. Non ho mostrato il volto dei coniugi per evitare un giudizio morale, altrimenti sarebbe diventata un’altra storia; a noi invece interessava esplorare le possibilità che ha l’amore di esistere e come per ogni individuo possano coesistere queste due posizioni rispetto all’amore, quella del tradito e quella di chi tradisce.
Tony Leung ha dichiarato a un giornalista che In the Mood for Love è iniziato come una commedia, o comunque qualcosa di completamente diverso da com’è adesso. Quanto conta per te l’improvvisazione?
No, non ho mai avuto l’intenzione di farne una commedia, anche se in qualche scena capita che il pubblico si metta a ridere. Per quanto riguarda l’improvvisazione, mi succede molto spesso – come in questo caso – di iniziare a girare senza avere un copione completamente finito, di partire solo con una specie di scaletta e alcune idee. All’inizio, in realtà, ho in mente solo gli attori. Per In the Mood for Love sapevo solo che volevo lavorare con Maggie e Tony; i personaggi sono nati in seguito, attraverso il lavoro con i due interpreti.
Si può considerare In the Mood for Love come una sorta di conclusione ideale di Days of Being Wild? Quest’ultimo terminava con Tony Leung che si vestiva preparandosi a uscire di casa, mentre qui il film inizia con l’arrivo dello stesso Tony nell’appartamento… Inoltre durante In the Mood for Love ricorre molto spesso l’inquadratura di un enorme orologio da parete, che sembrerebbe un riferimento a quello quasi identico che campeggiava nella prima sequenza di Days of Being Wild.
Veramente, quando abbiamo iniziato a girare, eravamo convinti che questo film non avesse niente a che fare con Days of Being Wild, sebbene anch’esso sia ambientato negli anni Sessanta. Ma durante le riprese abbiamo cominciato a percepire la sensazione di un fantasma dal passato che stava lentamente ritornando. Durante una discussione con Maggie a proposito del background del suo personaggio, io sostenni che effettivamente lei era lo stesso personaggio di Days of Being Wild con dieci anni in più. Maggie non era d’accordo, secondo lei non era lo stesso personaggio. «Perché no?», dissi io, «Per via del nome? Posso darti lo stesso nome, se vuoi». Quindi, per rispondere alla domanda, sì, per me In the Mood for Love è Days of Being Wild invecchiato di dieci anni. Se avessi realizzato In the Mood for Love dieci anni fa sarebbe stato come Days of Being Wild, e viceversa.
Uno spettatore occidentale potrebbe avere l’impressione che nel tuo film ci sia qualcosa di François Truffaut, del suo stile struggente nel descrivere l’evolversi dei sentimenti…
No, nel realizzare In the Mood for Love non ho mai avuto in mente Truffaut. Ma ricordo un suo celebre libro, «Il cinema secondo Hitchcock», e in realtà ho voluto fare un film come lo avrebbe fatto Hitchcock. In effetti è molto differente dai miei film precedenti, perché ho cercato di considerarlo quasi come un thriller. Nei thriller di Hitchcock la maggior parte delle azioni non accadono di fronte alla macchina da presa, ma fuori-campo: le puoi immaginare, ma non le vedi realmente sullo schermo. Proprio come nel mio film.
I tuoi film sono tutti prodotti dalla Jet Tone, la compagnia che hai fondato con Jeff Lau. Come funzionava la collaborazione tra voi due? In particolar modo, vorrei che mi parlassi di Ashes of Time e di The Eagle Shooting Heroes, due film del ‘93 tratti dallo stesso romanzo di Jin Yong, ma realizzati con stili completamente differenti: il primo, diretto da te, è un film d’arti marziali molto serio, invece il secondo, diretto da Jeff, è in pratica la parodia del tuo.
Ho fondato la Jet Tone perché dopo il flop di Days of Being Wild era diventato completamente impossibile trovare un produttore che volesse finanziare i miei film, quindi ho deciso di produrli da solo. Con me ho voluto Jeff Lau, che era un regista di successo a Hong Kong. Io e lui siamo amici da molto tempo, dato che abbiamo iniziato a lavorare insieme come sceneggiatori, molto tempo prima di esordire alla regia. Per quanto riguarda i due film… Ogni volta che terminavo un nuovo lavoro, subito dopo veniva fuori la parodia. È successo con Days of Being Wild, immediatamente preso in giro da Days of Being Dumb (di Blackie Ko, con Tony Leung Chiu-wai – protagonista di In the Mood for Love – in uno dei due ruoli principali, n.d.r.). Così ho pensato che sarebbe stato interessante realizzare contemporaneamente Ashes of Time e la sua parodia. Ma il fatto è che io lavoro lentamente, mentre Jeff è velocissimo: quindi in effetti è successo che la parodia, ovvero The Eagle Shooting Heroes, è uscita nelle sale prima del film che doveva essere parodiato, cioè Ashes of Time.
È vero, come ci ha rivelato Stephen Chiau a Udine, che Jeff Lau intende ritirarsi?
No, non mi risulta. Jeff si è trasferito in Canada e sta lavorando a un nuovo film.
Quale sarà, invece, il tuo prossimo progetto?
Sto preparando un film intitolato 2046, inizierò a girarlo molto presto. L’idea del film nasce dal fatto che nel 1997, al momento dell’handover, il governo cinese promise che per cinquant’anni a Hong Kong non sarebbe cambiato nulla. Il film, appunto, è ambientato nel corso dell’ultimo di quei cinquant’anni. È un film sulle promesse.



Wong Kar-Wai Interview di Graham Fuller
22 marzo 2009, 5:20 PM
Filed under: 5. Interviste

GIVING MUSCLE TO THE IMAGINARY

During the late ’80s and early ’90s, Wong Kar-wai emerged as the most audacious and innovative stylist in the new Asian cinema. Marrying a frenetic–at times downright distorted–mise-en-scene to tales of cops, gangsters, counter girls, assassins, travelers, femme fatales and other strangers in the night, Wong explored the parameters of urban alienation and thwarted love in movies of impacted lyricism (though his resume also includes a seminally sophisticated martial arts drama, 1994’s Ashes of Time). As thrilling as they are forlorn, the likes of Days of Being Wild (1991), Chungking Express (1994), and Fallen Angels (1995) are the work of a buccaneering modernist.

With his latest, this month’s gorgeous, melancholy in the Mood for Love, Wong confounds expectations by slowing everything to a stately pace. In Hong Kong in 1962, a Chinese journalist and a secretary–Mr. Chow (Tony Leung Chiu-wai) and Mrs. Su (Maggie Cheung Man-yuk)–discover that their spouses are having an affair and, thrown together, embark on their own tantalizing liaison. Wong mostly spares us their clinches: Mood is the operative word here, with gestures and looks stoking the couple’s feverish desire. The movie is about more than blighted amour, however, as the burly, impassive director explained to me one Sunday afternoon at Manhattan’s Mercer hotel.

GRAHAM FULLER: In the Mood for Love grew out of two other films you’d been planning. Summer in Beijing and Three Stories About Food. How did it evolve?

WONG KAR-WAI: After Happy Together [1997], we wanted to make a film in Beijing about two Hong Kong citizens working there. But we had to submit the script to the Chinese authorities, and the censor department didn’t like the title, Summer in Beijing. I said, “It’s very romantic. What’s wrong with that?” At the time, I guess, a lot of filmmakers wanted to make pictures about Tiananmen Square, and the Chinese are sensitive about that. In the end, I thought we shouldn’t make the film because we’d have to change the script, and then we’d have problems afterwards.

I still liked the title Summer in Beijing, though, so I said, “OK, we’ll make a film about a restaurant called ‘Beijing’ that’s not even in Beijing.” We started with three stories. One of them was about two people living in the same building, both married, who find out that something’s going on between their spouses. Then it happens between the two of them, too, and that’s the part we made. We kept making it longer and longer until I thought, Well, we don’t need other stories–we just need this one.

GF: It’s as much about a world that has gone as it is about a love affair, isn’t it?

WKW: Yes. At first, we thought we were making a story about two people sharing a secret. Later I realized it’s more about a certain period that has been lost than about marriage and affairs.

I was born in Shanghai [in 1958] and moved to Hong Kong when I was five. In those days, the Shanghainese in Hong Kong didn’t get along very well with the local people. In the ’30s and ’40s, Shanghai was so modern that even ’50s Hong Kong seemed rather primitive to them. At first the exiles lived by themselves and tried to build a small Shanghai with their own music and cinemas–that’s the background I came from, and it was a unique period in my life. I chose to end the film in 1966 because these people who had been living peacefully in Hong Kong for 15 years suddenly woke up from their dream. They began to realize that the Cultural Revolution was affecting Hong Kong, and a lot of them moved even further away. Those who stayed began to treat Hong Kong as their hometown.

GF: When Mrs. Su and Mr. Chow reflect on their relationship, they are nostalgic for the time and place as much as they are for their lost love.

WKW: That period, actually, is one of the reasons that made the whole thing possible for them, because what made them stick together was the sense they were always being watched by their neighbors and had to whisper about their shared secret. When we see them in 1966, each of them is living an independent life. don’t think they would have been happy if they had lived together. And it’s because they didn’t that the whole thing is memorable to them.

GF: You filmed a love scene between Mrs. Su and Mr. Chow. Why did you cut it?

WKw: I don’t think the audience would want to know if that had happened between them. I shoot my films from the point of view of neighbors, and as a neighbor there is always something you cannot see and have to guess at.

GF: So did they consummate their relationship?

WKW: [pause] It depends on your idea of their relationship. We get used to films that provide a lot of information and we don’t have to ask questions about them, but I would like people to ask questions about this film. I think it’s interesting for the audience to ask, for example, who is the father of Mrs. Su’s kid? The answer will depend on what kind of person you are.

GF: Where Chungking Express and Fallen Angels were hyperkinetic, In the Mood for Love is much more classical. What dictated that?

WEW: I think things were slower in the ’60s. I’m not sure it’s true, actually, but from my memories it seems to be. Also, over the years, audiences have come to expect the faster style from us–it has become our label. People have said, “Can you make a film without moving your camera so much, or without a voice-over?” So it became a challenge to make a more static, classic kind of film. I wanted to make it like a traditional Hitchcock thriller, full of suspense.

GF: You sometimes roll the camera in from left or right of the frame so it alights on the couple. It poeticizes their get-togethers far more than a regular establishing or master shot would. What prompted that choice?

WKW: It’s punctuation. Most of the time in a love story audiences want to concentrate on the coupIe. It’s very indulging, you know? We wanted to start from an ambience and show how their relationship is not the only thing in the world.

GF: You often shoot lovers in isolation–for instance, Faye Wang in Chungking Express and Michelle Reis in Fallen Angels. Here, too, we spend a lot of time with Mrs. Su and Mr. Chow on their own. It’s as if love manifests itself most powerfully in isolation. Why is that such an important idea to you?

WKW: When I was a child, I was the only one who came to Hong Kong; my brother and sister stayed in Shanghai. I didn’t have a lot of friends, so I know about loneliness. I always consider my characters to be in orbit. They are in a routine, but then something happens–maybe they fall in or out of love–and they try to break from that routine. So we see them in transit, and at the end they are usually headed in a new direction.

GF: Do you think you could make a film where a love affair ends happily?

WKW: [smiles] That would be a challenge. Maybe it will be the subject of my next film.

Graham Fuller is Interview’s Film writer at Large. In front of the camera, behind the lenses: Wong Kar-wai, opposite left, wears a jacket, top, and pants by Donna Karan New York. Stylist: John vertin. Grooming: Sara Johnson for Sarah Laird.

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La seduzione del cinema di Marco Luceri
22 marzo 2009, 5:05 PM
Filed under: 4. La mano - episodio di Eros

Era da tempo che Michelangelo Antonioni voleva veder realizzato un suo vecchio progetto, Eros appunto, un film collettivo che raccogliesse tre visioni, tre punti di vista differenti sul tema forse più complesso da rappresentare attraverso le forme del cinema, l’erotismo. Riprendendo una formula narrativa che rimanda a quelle collaborazioni tra vari registi tipiche degli anni Settanta (e non sempre all’altezza delle aspettative), il Maestro ferrarese, ormai novantaduenne, aveva voluto inizialmente accanto a sè due autori contemporanei che più o meno inconsapevolmente amano trattare il tema dell’erotismo in maniera personalissima ed originale:Wong Kar-Wai e Pedro Almodovar.

Alla defezione del regista spagnolo (arrivata quando gli altri due episodi erano già a buon punto) ha sopperito inaspettatamente Steven Soderbergh. Date le premesse, dunque, un film come Eros risente nel suo complesso di una discontinuità formale e drammaturgica facilmente comprensibile, dato il calibro dei tre fuoriclasse e l’estrema originalità con cui I tre maestri si sono avvicinati al tema. Tuttavia il film non è da considerarsi come una semplice somma aritmetica, in quanto, seppur nelle diversità, oltre al tema, resta tra i tre episodi un sotteraneo filo comune, cioè quello di un cinema che riflette sulle sue forme, oltre che sulla passione e sul fascino della seduzione.

Christopher Bucholz

IL FILO PERICOLOSO DELLE COSE
Nove anni dopo l’uscita di Al di là delle nuvole (per la cui realizzazione si era speso in prima persona Wim Wenders), il Maestro torna ad uno dei filoni principali della sua poetica, l’erotismo come dimensione incontrollabile delle relazioni umane, in cui si concretizza, fuggevole, il mistero delle immagini e della realtà. Mettendo subito da parte qualsiasi commento alla sceneggiatura (che appare come un’aggiunta a qualcosa di già cristallizzato in sè), il pregio di quest’episodio risiede tutto nel fascino raggelante delle immagini paesaggistiche e nel loro alternarsi alle calde e sensuali superfici dei corpi di due bellissime donne (Regina Nemni e Luisa Ranieri) che si contendono inconsapevolmente un giovane uomo (Christopher Bucholz).

Basta quest’esilissima traccia drammaturgica al Maestro per costruirci intorno l’ennesima mirabile tessitura di immagini sconnesse e misteriose. Il fascino dei corpi femminili, delle loro nudità, sovverte e rinnova le relazioni di un rapporto amoroso corroso e sfilacciato, senza arrivare però a costruirne un altro più solido, anzi la nuova relazione sembra ancora più esile e precaria della precedente. C’era da aspettaserlo che Antonioni proseguisse sulla scia dei vuoti di Ritorno a Lisca Bianca (splendido cortometraggio del 1995 in cui il Maestro rigira negli stessi luoghi la celebre sequenza della scomparsa di Anna ne L’avventura, stavolta però senza personaggi) e delle metafisiche atmosfere de Lo sguardo di Michelangelo.

Ma stavolta, spingendosi ancora oltre (l’ennesimo salto in avanti del Maestro), le relazioni sfilacciate tra i tre protagonisti servono per un’ulteriore riflessione sul proprio lavoro cinematografico. Un’altra “cronaca di un amore mai esistito”, insomma, in cui Antonioni condensa molti dei temi e delle forme del suo cinema (l’incomunicabilità, lo smarrimento dell’uomo moderno, l’artificiosità delle sue certezze e del cinema stesso), in una breve rilettura di esso ironica ed inquietante allo stesso modo. Quale migliore forza, allora, se non quella esasperante, impulsiva, irrazionale dell’erotismo, per ribadire ancora una volta (come diceva il regista alter-ego John Malkovich alla fine di Al di là delle nuvole) che “sotto l’immagine rivelata ce n’é un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e ancora un’altra sotto quest’ultima, fino alla vera immagine di quella realtà assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai”? E questa non è, sia chiaro, sola estetica.

Gong Li

EQUILIBRIO
L’episodio di Soderbergh è sicuramente dei tre quello più leggero e divertente, in cui il cineasta americano si nasconde dietro le confusioni erotico-sentimentali di un giovane dirigente in carriera (Robert Downey Jr.). Seduto sul lettino di un fantomatico spicanalistica (Alan Arkin) che spia insistentemente fuori dalla finestra qualcosa che non ci viene mai mostrato, il nostro inconsapevole paziente vaneggia su un sogno insistente in cui egli stesso spia una bellissima e misteriosa donna che fa un bagno. Col proseguire del breve racconto si scopre ben presto che le identità dei personaggi non sono poi così chiare e chi spia ed è analizzato in realtà è spiato e analizzato a sua volta, e viceversa. Insistendo forse un po’ troppo in maniera compiaciuta sul nascondere ed il confondere le carte, Soderbergh cerca di giocare con la sempiterna confusione erotica del maschio, che spesso non riesce a discernere le percezioni reali dai sogni. Alla fine l’unica immagine a conservare la forza di un potere oscuro e seducente è proprio quella inafferabile della donna.

LA MANO
Il maestro di Hong Kong saccheggia In the mood for love e 2046 per imbastire un’altra imperdibile, stupenda variazione erotica sul tema degli amori impossibili. Vero gioiello di Eros, l’episodio di Wong Kar-Wai recupera temi ed atmosfere degli ultimi due capolavori, per narrare I capricci di una prostituta d’alto borgo (Gong Li) e del suo giovane ed inesperto sarto (Chang Chen), a cui durante la prima visita domiciliare è concesso il piacere di una masturbazione con un elegantissimo guanto di raso nero (é forse la stessa mano della Mimì di 2046?). Sarà il solo piacere erotico che la donna concederà in tantissimi anni all’unico uomo che seguirà la sua vicenda umana; folle amore impossibile, esso resta sullo sfondo doloroso di un’inarrestabile decadimento fisico ed esistenziale.

Eppure il contatto delle vesti, degli eleganti e ricercati abiti di seta e raso sostituiscono nella realtà il sogno erotico proibito del sarto, quello di unirsi carnalmente con la donna sempre più irraggiungibile. Logico dunque che trionfino le atmosfere ed I colori cari al maestro di Hong Kong e al suo inseparabile direttore della fotografia Christopher Doyle: una Shangai piovosa e misteriosa attraversata dalle luci dei neon, I caldi interni, gli eleganti costumi che frusciano tra porte e specchi; é insomma lo scenario teatrale più intimo per il nostro sarto spettatore, eternamente dannato ad essere voyer di amplessi altrui. L’unico modo per amare una donna che si concede agli altri è allora quello di ricamare egli stesso gli abiti di scena che plasmeranno il suo corpo proibito, creando e ricreando le forme di un’ossessione che possa vincere anche la morte.

Robert Downey jr. e Alan Arkin

Tre sguardi d’autore allora, tre visioni differenti, tre brevi riflessioni sulla legge del desiderio che soprassiede a qualsiasi forma di erotismo; Antonioni, Soderbergh e Kar-Wai ribadiscono, ognuno a suo modo, come esso forse appaia ancora oggi l’unico luogo del mistero assoluto, verso cui le forme del cinema si sentono irresistibilmente attratte, ma dal quale non riceveranno mai delle risposte definitive, proprio come in una coppia di amanti qualsiasi.

Meritano una particolare attenzione gli stupendi disegni erotici di Lorenzo Mattotti che scandiscono gli intermezzi tra un episodio e l’altro, accompagnati dal commento sonoro di una canzone di Caetano Veloso, un’aerea e dolce nenia intitolata semplicemente Michelangelo, dedicata al Maestro.



Antonioni, Soderbergh e Wong Kar-Wai: l’Eros di tre maestri di Chiara Ugolini
22 marzo 2009, 5:00 PM
Filed under: 4. La mano - episodio di Eros

Una scena del film

Una scena del film

Tre sguardi sul mondo dell’eros. Tre registi lontanissimi, per cultura, per generazione, per stile. Michelangelo Antonioni, Steven Soderbergh, Wong Kar Wai sono gli autori di Eros, il film presentato fuori concorso alla Mostra del cinema e che sarà nei cinema a dicembre.

All’incontro per il film erano presenti i produttori del film, Michelangelo Antonioni (accolto con un caloroso applauso) con la moglie Enrica, gli attori italiani, Steven Soderbergh e la sua attrice Ele Keats e il protagonista di Wong Kar Wai, Chang Chen.

IL TOCCO DI WONG KAR WAI
‘La mano’, episodio del regista di Hong Kong, racconta il rapporto difficile e tormentato tra una ricca cortigiana (la bellissima attrice feticcio di Wong Kar Wai, Gong Li) e il suo sarto (Chang Chen). La mano è quella del sarto che le cuce splendidi abiti, ma è soprattutto quella della cortigiana che nel loro primo e ultimo incontro lo tocca in una scena che si candida come tra le più poetiche e sensuali della storia del cinema. ”Prima di girare questo film avevo una concezione ristretta dell’eros – ha raccontato Chang Chen in rappresentanza del regista di Hong Kong bloccato in Tailandia dall’edizione del suo flm (sempre 2046) – forse perché ho avuto poche esperienze con le ragazze. E’ stata una lavorazione difficile per via della Sars e perché l’apprensione di lavorare con una grande attrice come Gong Li era grande. Posso dire che con questo film sono cresciuto molto”.

IL SOGNO OSSESSIVO DI SODERBERGH
Steven Soderbergh indaga, in ‘Equilibrium’, il sogno erotico e ossessivo di un pubblicitario. Robert Downey Jr. non riesce a liberarsi dell’immagine di una donna che si spoglia, si siede sulla vasca da bagno, si mostra nuda e si riveste. Sul lettino di uno psichiatra cerca di capire chi è quella donna per lui sconosciuta ma estremamente familiare.
”Quando ho saputo che Michelangelo Antonioni e Wong Kar Wai avrebbero fatto parte del progetto ho accettato immediatamente, senza riflettere più di tanto su quello che volevo fare. – ha confessato il regista americano – Mi ci è voluto un po’ di tempo per elaborare un’idea e ho deciso di partire dal sogno che è un elemento molto erotico per me, forse perché non lo puoi controllare. Mi piaceva l’immagine di un uomo che sogna costantemente sua moglie senza rendersene conto”.

IL PERICOLO DI MICHELANGELO ANTONIONI
Ambientato nella maremma toscana, l’episodio del maestro italiano racconta una sorta di triangolo tra una coppia sposata in crisi (Christopher Buchholz e Regina Nemni) ed una giovane cavallerizza (Luisa Ranieri). Scritto da Tonino Guerra (”ogni mattina ci mandava le battute dei dialoghi – ha raccontato Enrica Antonioni – e ci mettevamo ore per capirle e tradurle”), il film avrebbe potuto avere un altro finale. Dopo averlo girato infatti Antonioni ha pensato che nell’immagine finale, le due donne danzano nude sulla spiaggia, avrebbe voluto anche Christopher Buchholz.
”Quando sono stato contattato da Antonioni per il film doveva essere una pellicola estremamente erotica – ha detto Christopher, figlio del grande attore tedesco Horst – ed io ero entusiasta. Gli ho detto: ‘bellissimo, sarà un film come ‘L’impero dei sensi’, potremo mostrare il sesso eretto. Poi ho pensato che se mi avessero preso sarebbe toccato a me, poi per fortuna è diventato un omaggio alla natura”.

Il film composto dai tre episodi è tenuto insieme dalle bellissime immagini erotiche di Lorenzo Mattotti e dalla canzone che Caetano Veloso ha dedicato a Michelangelo Antonioni.

(10-09-2004)